Nel maggio del 2006 quattro studenti di un istituto tecnico di Torino girano un video in cui insultano e maltrattano un loro compagno disabile, affetto da sindrome di down. L’8 settembre dello stesso anno il filmato viene pubblicato su Google Video – servizio di video sharing al pari di YouTube, sempre di proprietà del colosso di Mountain View – dove rimane, cliccatissimo nella sezione “video più divertenti”, fino al 7 novembre quando viene rimosso. Intanto la procura di Milano cita in giudizio quattro dirigenti di Google, con l’accusa di concorso in diffamazione e violazione della privacy.
Il 24 febbraio 2010 il tribunale di Milano ha condannato tre dirigenti di Google per non aver impedito nel 2006 la pubblicazione sul motore di ricerca del video incriminato. In particolare il giudice Oscar Magi ha condannato David Carl Drummond, ex presidente del cda di Google Italia, George De Los Reyes, ex membro del cda di Google Italia e Peter Fleischer, responsabile delle strategie del gruppo, per violazione della legge sulla privacy a sei mesi di reclusione con pena sospesa e li ha invece assolti dal reato di diffamazione. “Non esiste la sconfinata prateria di Internet dove tutto è permesso e niente può essere vietato, pena la scomunica mondiale del popolo del Web – scrive il giudice Magi per motivare la condanna inflitta ai tre dirigenti Google -. Esistono invece leggi che codificano comportamenti che creano degli obblighi che ove non rispettati conducono al riconoscimento di una penale responsabilità”.
“Sentenza sorprendente che mette in discussione principi fondamentali di libertà dal momento che i nostri dipendenti sono stati condannati dal giudice per atti commessi da terzi” è la reazione immediata di Google sulla sentenza del Tribunale di Milano. La questione resta aperta: i grandi motori di ricerca e i provider sono responsabili per i contenuti immessi on line, e che vengono scaricati da milioni di utenti? “La normativa vigente – ha specificato Marco Pancini, responsabile dei rapporti istituzionali di Google Italia – è stata definita appositamente per mettere gli Internet service provider al riparo dal danno di responsabilità, a condizione che rimuovono i contenuti illeciti non appena informati della loro esistenza. Se questi principi vengono meno, e se siti come i blog, Facebook, YouTube vengono ritenuti responsabili del controllo di ogni video – ha proseguito lo stesso Pancini – significherebbe la fine di Internet come oggi lo conosciamo, con tutte le conseguenze politiche e tecnologiche”.
Sulla vicenda è intervenuto anche l’ambasciatore americano a Roma, David Thorne, aprendo un piccolo caso diplomatico: “Siamo negativamente colpiti dalla decisione. Non siamo d’accordo sul fatto che la responsabilità preventiva dei contenuti caricati dagli utenti ricada sugli Internet service provider”. L’ambasciatore ha inoltre ricordato la recente presa di posizione del segretario di Stato USA, Hillary Clinton, che lo scorso 21 gennaio ha affermato con chiarezza che Internet libero è un diritto umano inalienabile. Anche Michael Posner, assistente segretario di Stato per la democrazia, i diritti umani e il lavoro, ha espresso le sue perplessità sulla sentenza di condanna di Google: “è spiacevole che le autorità italiane abbiano cercato di imporre ai rappresentanti di una società privata una censura preventiva dei contenuti. Siamo chiaramente preoccupati per le conseguenze che questa sentenza potrebbe avere a livello globale”.
I magistrati di Milano che si sono occupati dell’inchiesta, il sostituto procuratore Francesco Cajani e il procuratore aggiunto Alfredo Robledo, hanno prontamente replicato che la libertà d’espressione sul Web non è in discussione, assicurando che la sentenza non avrà effetti sui social network e su chi si esprime su Internet senza finalità di lucro. “Con questo processo – hanno precisato i magistrati – abbiamo posto un problema serio, ossia la tutela della persona umana che deve prevalere sulla logica di impresa”.
Numerosi sono stati anche i commenti politici ed istituzionali sulla vicenda Google. Secondo Paolo Gentiloni (Pd): “il principio della responsabilità dei motori di ricerca o dei social network per i contenuti messi in Rete dagli utenti è un precedente unico e allarmante”. Maurizio Gasparri (Pdl) plaude alla decisione del Tribunale di Milano: “è una sentenza esemplare, ci auguriamo che non si sottovaluti più l’importanza della vigilanza dei contenuti immessi in Rete”. Per Antonio Di Pietro (Idv): “con questa condanna alla libertà della Rete hanno perso tutti”. Il Garante della privacy Francesco Pizzetti ha scritto in una nota: “È certo che questa pronuncia pone all’attenzione di tutti la necessità di individuare con urgenza regole condivise, che consentano di salvaguardare la libertà della Rete e di tutelare la dignità e la riservatezza delle persone”.
di Erminio Cipriano