Le calcolatrici elettroniche riescono a risolvere come niente equazioni che richiederebbero, se quei conteggi avesse da farli direttamente il matematico, anni e anni di lavoro, e forse gli anni non basterebbero; ma il prodigio non è qui: il prodigio metrico non è tanto nei prodotti di calcolo di quella macchina quanto nella macchina stessa: nei suoi congegni, nelle funzioni che, dai rapporti che tra di essi istantaneamente s’istituiscono, derivano, possono senza fine derivare. In quel prodigio di metrica noi possiamo ammirare il conseguimento di una forma articolata che, per raggiungere la sua perfetta precisione di forma, dovette richiedere ai suoi ideatori e ai suoi costruttori un’emozione non dissimile da quella, anzi identica a quella, cui il piacere estetico dà vita.
Cesare Ungaretti
Civiltà delle Macchine
1953
Tutti noi sappiamo che una macchia che oscura l’immagine della Apple, il brand digitale più affermato di questo scorcio di secolo, riguarda quell’infermo in terra che è rappresentato da Foxconn, la più grande fabbrica del pianeta, complessivamente coinvolge circa 430 mila dipendenti, da cui provengono gli sfavillanti iPad e iPhone, le protesi umane più usate nella storia. I resoconti che sono arrivati a noi da quel girone dantesco che sono i capannoni della sterminata fabbrica cinese raccontano di condizioni assolutamente inimmaginabili. Solo le più crude ricostruzioni delle condizioni di vita nelle miniere gallesi di metà dell’800, o nelle fabbriche tessili di Manchester sono comparabili allo stato di degrado umano che si è raggiunto alla Foxconn di Shenzen, in Cina. Bambini legati al banco per 11 ore al giorno, intere famiglie costrette a vivere ai pianali dove si montavano gli apparecchi digitali. Il risultato è stato il più alto numero di suicidi registrato in una sola comunità .
Un inferno che bruciava accanto al paradiso dei social network. Un’infamia che si consumava proprio alla periferia del circo mediatico. In pochi mesi però la protesta, l’indignazione, la ripulsa civile ha contagiato il popolo della rete. Steve Jobs, come uno dei suoi ultimi anni, prima della tragica fine, decise che bisognasse cancellare quella macchia. Ma cosa fece scalpore? Chi denunciò lo scandalo? Un quotidiano? Un blog? Un forum on line? Un opera teatrale.
Si tratta di una straordinaria performance, scritta da Mike Daisey: Il tormento e l’estasi di Steve Jobs.
Uno straordinario monologo di un amante tradito. Mike era infatti un vero militante del Mac, che aveva una venerazione per il suo guru: Steve Jobs. Quando scoprì, casualmente, navigando in rete, che dietro lo scintillio della creatività della mela si nascondeva il verme di Shenzen decise di riversare il suo amore in un impeto di passione civile e scrisse, quasi tutto d’un fiato, l’opera teatrale che venne rappresentata in tutte le principali città americane, provocando indignazione e proteste.
E’ una delle grandi e stupefacenti storie dell’emotività della rete. Ma Mike Daisey ci racconta anche un’altra storia: la crisi dei media.
La vicenda di Foxconn è una delle tante storie che ormai corrono per il mondo al di fuori dei canali comunicativi tradizionali. E’ un altro pezzo di vita che non è più raccontato dai giornali e dai giornalisti. In Italia abbiamo illustri esempi: uno per tutti è Gomorra. Cosa era se non una grande inchiesta giornalistica il capolavoro di Saviano? E quella storia, le infiltrazioni camorristiche nella società, sono tutt’ora raccontate fuori dalle colonne dei giornali. Su un altro versante cosa altro ci segnala se non l’esaurimento della forza propulsiva del giornale l’assegnazione, ormai non più occasionale, del Pulitzer per le inchieste giornalistiche a enti come le Fondazioni, tipo ProPubblica, che promuovono e finanziano, autonomamente i reportage giornalistici che poi arrivano, in seconda battuta sui quotidiani o i magazine. Oppure, la vicenda di Wikipedia, che certo ha bisogno dei quotidiani per dare risalto alle sue rivelazioni, ma li usa come centri servizi, come luoghi di promozione di un manufatto tutto esterno.
Ce n’è d’avanzo per mettere all’ordine del giorno il tema della maturità del giornalismo. O meglio ancora, dell’obsolescenza del modello industriale ed economico basato sulla concentrazione e la selezione dell’informazione in canali imprenditoriali specializzati. Siamo non distanti dalla messa in discussione del modello di business dell’editoria in quanto luogo di relazioni sociali e non più di scambio commerciale di conoscenza.
Laicamente, vogliamo agire con l’obbiettivo di usare, come il capitalismo più sano e resistente ha sempre fatto, la crisi per crescere e non soccombere, mutando darwinianamente secondo il corso della storia. La proposta è quella di aprire un vero cantiere imprenditoriale, anzi di proporsi come impresari di una riflessione di sistema: come riconfigurare proficuamente il sistema della intermediazione delle informazioni e dei sistemi utenti, tali sono oggi i media, per estendere l’accesso alle fonti e moltiplicare l’approccio ai contenuti.
Due sono gli assi lungo i quali vorremmo lavorare con il sistema di ricerca Media Duemila:
1) modelli di valorizzazione dell’impresa editoriale a partire dai suoi veri assets, come la credibilità e la relazione con i suoi utenti
2) una nuova cultura dell’informazione veloce dove declinare valori di garanzia e di trasparenza nel contesto di una competitività delle piattaforme italiane.
Al centro di questo processo c’è un nuovo interlocutore: il software. Un sistema che influisce sul nostro pensiero e come spiegava, nella citazione che riportiamo di Cesare Ungaretti già nel lontanissimo 1953, anche sulla nostra emotività.
Lev Manovich ci ha spiegato nel suo ultimo testo Software Culture, che ogni manifestazione del pensiero umano è oggi formattato e veicolato da un algoritmo. Un meccanismo sensibile che tende ormai a prevalere sull’oggetto della sua attività, che è appunto il nostro pensiero. E’ questo il punto su cui ricostruire il protagonismo professionale del giornalista. Software e velocità. Infatti l’automatizzazione delle singole funzioni comporta una militarizzazione veloce dello scambio di informazioni. Il realtime è più selettivo non più accessibile. Dobbiamo elaborare un codice professionale che renda l’istantaneità della notizia, e del suo commento, un terreno contendibile per il sistema redazionale.
Per affrontare questi temi dovremo navigare in mare aperto, lavorare, senza vincoli o opportunismi, sui profili professionali, le strumentazioni tecnologiche, i valori deontologici. Una nuova cassetta degli attrezzi che renda il prodotto giornale capace di seguire il senso dei tempi.
Consci che, come diceva Lord Keynes, per superare una vecchia teoria non bastano i fatti. Ci vuole anche una nuova teoria.
Michele Mezza