Fino a poco fa i Paesi del continente venivano percepiti quasi esclusivamente come consumatori di finanziamenti americani per lo sviluppo. Ma petrolio, terrorismo e concorrenza cinese hanno portato gli USA e riconsiderare la propria politica
Per diversi decenni l’Africa ha tratto linfa vitale dalla politica estera statunitense. Ma oggi petrolio e terrorismo hanno cambiato le carte in tavola. Fino a qualche tempo fa, l’Africa rappresentava agli occhi degli Stati Uniti un consumatore dei finanziamenti americani stanziati a favore dello sviluppo. Oggi, stando ai dati dell’agenzia statistica del Dipartimento dell’Energia statunitense, gli USA importano dall’Africa una quantità di prodotti petroliferi (20 percento) quasi pari a quella proveniente dal Medio Oriente (22 percento). Per gli Stati Uniti la Nigeria rappresenta il quarto fornitore di prodotti petroliferi su scala mondiale, e con il suo 10 percento si colloca a breve distanza dal secondo fornitore, l’Arabia Saudita, che provvede al 14 percento. Si pensi che nel 1995, nel suo rapporto sulla sicurezza globale, il Dipartimento della Difesa statunitense dichiarava: “Di fatto non intravediamo veri e propri interessi strategici in Africa”. Dopo tre anni, due ambasciate degli Stati Uniti nell’Africa orientale subivano attacchi terroristici. Oggi gli USA hanno istituito un comando militare globale dedicato all’Africa con una duplice e complessa missione: tutelare gli interessi del settore petrolifero e contrastare l’ascesa delle organizzazioni terroristiche. Un binomio che sta spingendo gli Stati Uniti a riconsiderare le politiche per l’Africa e le strategie di sicurezza energetica nel continente. The Brookings Institution, prestigioso istituto di analisi dei temi di politica internazionale, indica un altro fattore che spinge l’America a interessarsi sempre più al continente africano: “Il timore che nuovi partner, come Cina e India, possano estrometterla dal mercato africano”. In occasione di una visita di 11 giorni in Africa, lo scorso agosto il Segretario di Stato degli USA, Hillary Clinton, ha sottolineato l’impegno americano nel promuovere i principi della democrazia e i diritti umani nel continente africano, contrariamente ad altre nazioni che ha accusato essere principalmente interessate a sfruttare le risorse della regione. Durante un discorso pronunciato presso un’università senegalese, Hillary Clinton ha dichiarato che gli USA appoggiano “un modello di partnership sostenibile che punti a creare valore aggiunto [per l’Africa], non a sottrargliene. L’America intende battersi per la democrazia e i diritti umani universali, anche quando può apparire più semplice chiudere un occhio per lasciar fluire le risorse”. La Cina, seppure non esplicitamente menzionata nel corso dell’intervento, si è affrettata a confutare le dichiarazioni del Segretario di Stato bollandole come un attacco infondato al Paese.
USA contro Cina
David Brown, in una recente monografia intitolata “Hidden Dragon, Crouching Lion: How China’s Advance in Africa is Underestimated and Africa’s Potential Underappreciated”, sostiene che gli Stati Uniti abbiano buoni motivi di preoccuparsi per le intenzioni della Cina. “Pechino accoglie con favore i principi di buon governo solo quando si tratta di proteggere gli interessi commerciali e finanziari delle aziende cinesi, ad esempio in un’economia avanzata come il Sudafrica. Ma nel complesso la Cina rappresenta una minaccia per gli obiettivi perseguiti dall’Occidente, ossia promuovere democrazia, buon governo e diritti umani in Africa”. Malgrado le sue osservazioni, gli USA sono stati molto più lenti della Cina nello stringere attivamente rapporti con l’Africa e nel considerare le nazioni che la compongono come importanti partner commerciali. Sia a livello di politica estera che sul fronte dell’opinione pubblica, gli Stati Uniti vedono ancora l’Africa come un continente che ospita 14 dei 20 paesi più disagiati al mondo compresi nella classifica “Failed States Index”, pubblicata nel 2011 sulla rivista Foreign Policy. Tre anni fa la Cina è diventata il principale partner commerciale dell’Africa, soppiantando gli Stati Uniti. Anche per questo motivo, quest’estate l’Amministrazione Obama ha annunciato che la nuova strategia per il continente africano si sarebbe fondata più su attività commerciali che non su programmi di aiuti economici. La nuova strategia si articola in quattro obiettivi principali:
- Contribuire a rafforzare le istituzioni democratiche e l’osservanza delle normative di legge su tutto il territorio africano e nelle regioni limitrofe.
- Contribuire a sostenere una crescita economica orientata al mercato sul territorio africano tramite scambi, attività commerciali e nuovi investimenti.
- Sostenere la pace e la stabilità
- Promuovere i programmi di sviluppo economico dell’Amministrazione Obama.
Ma gli Stati Uniti hanno già accusato una costante perdita d’influenza sul continente che sarà difficile riconquistare. David H. Shinn, ex ambasciatore statunitense in Etiopia e Burkina Faso, oggi docente presso la George Washington University, ha dichiarato lo scorso novembre al Senate Committee on Foreign Relations Subcommittee on African Affairs: “Persino i Paesi che sono in buoni rapporti con gli Stati Uniti, come l’Etiopia, il Kenya, l’Angola, il Ghana e il Sudafrica, si trovano in condizioni di poter scegliere se e in quale misura adottare le direttive suggerite dagli Stati Uniti. Sapendo di poter contare sul sostegno della Cina, gli Stati africani che subiscono pressioni dagli USA e dall’Occidente per migliorare le rispettive prassi politiche o in tema di diritti umani sono meno propensi a farlo”. Le nuove normative statunitensi, già al centro di polemiche, prevedono che le società dei settori gaspetrolifero ed estrattivo quotate sulle piazze finanziarie statunitensi (per un totale di 1.100 aziende) pubblichino tutti i pagamenti superiori a 100.000 dollari effettuati a favore di governi esteri; questo per contrastare il fenomeno della corruzione. Eppure, le nuove regole imposte dalla Securities and Exchange Commission statunitense (SEC) potrebbero avere successo proprio dove hanno fallito anni di programmi di sovvenzioni finalizzati a promuovere i principi della democrazia e scoraggiare la corruzione nei Paesi in via di sviluppo. Le società statunitensi si sono unite per protestare contro le nuove normative, che per le società americane comporterebbero costose lungaggini burocratiche e la perdita di attività nei confronti di altri paesi (ad es. la Cina), dove non sono previste simili pratiche di reporting. Transparency International ha elogiato l’iniziativa statunitense definendola “una pietra miliare nella lunga campagna per la trasparenza nell’industria estrattiva”. E ancora: “Questo semplice atto di informativa al pubblico permetterà ai cittadini di alcuni fra i Paesi più poveri al mondo di monitorare l’operato dei funzionari governativi e porre scomodi quesiti sull’utilizzo dei proventi derivanti dalle risorse naturali”. Il vero valore delle normative dipenderà dalla loro effettiva attuazione e dalle sanzioni prescritte alle società che ne infrangeranno le regole.
L’Esercito statunitense scende in campo
Il crescente interesse nutrito dagli Stati Uniti nel continente africano si manifesta soprattutto in AFRICOM, il comando militare statunitense dedicato all’Africa, istituito nel 2008 e incaricato di gestire tutti gli interventi, le esercitazioni e le attività di cooperazione per la sicurezza del Dipartimento della Difesa USA nel continente africano, nei relativi Stati insulari e nelle acque limitrofe. Come si legge nella sua dichiarazione programmatica, “lo U.S. Africa Command protegge e difende gli interessi della sicurezza nazionale degli Stati Uniti rafforzando le capacità di difesa degli Stati africani e delle organizzazioni regionali e, ove richiesto, conduce attività militari volte a individuare ed eliminare minacce internazionali e a instaurare un clima di sicurezza atto a favorire il buon governo e lo sviluppo”. Ad ogni modo, il comando ha la sua sede centrale a Stoccarda, in Germania, e il personale di stanza sul territorio africano non va oltre le poche centinaia di unità. Alcune nazioni africane nutrono una certa diffidenza nelle motivazioni che hanno spinto gli USA a dar vita ad AFRICOM; molti temono che la presenza statunitense attirerebbe più atti di terrorismo e violenza nel paese, altri non gradiscono l’immagine di imperialismo americano che conferirebbe una presenza militare sul territorio. “Gran parte dei nostri interventi sono condotti da piccole squadre guidate dall’Esercito, dalla Marina, dall’Aeronautica militare, dal Corpo dei Marines e dalle Forze per operazioni speciali degli Stati Uniti, a costi ridotti e con una presenza a basso impatto”, ha affermato quest’anno Carter Ham, comandante in capo di AFRICOM, nella sua relazione annuale al Congresso. “I militari africani accolgono con molto favore il nostro approccio, di conseguenza siamo in grado di coltivare relazioni personali che si rivelano preziose per il nostro impegno a stringere relazioni istituzionali ancora più solide e sviluppare competenze”. Ha ammesso, tuttavia, che il comando ha in dotazione un budget limitato, non adatto a gestire operazioni su vasta scala. Mentre il lavoro del comando ha comportato una formazione per i militari delle singole forze armate nazionali e seminari sulla sicurezza a livello regionale, la Marina statunitense ha intensificato le operazioni nel Golfo di Guinea, dove si stima che 45 petroliere e altre imbarcazioni abbiano subito attacchi da parte dei pirati locali dall’inizio dell’anno. I pirati puntano di preferenza ai mercantili che trasportano combustibile, trasferendo poi il bottino su altre imbarcazioni per poi rivenderlo sul mercato nero. Le forze armate statunitensi hanno sviluppato nuove tecnologie volte a contrastare le attività dei pirati nelle vulnerabili acque africane. Alcuni mesi fa sono stati testati nuovi sensori che consentono alle autorità nazionali di individuare imbarcazioni di pirati, contrabbandieri di droga e trafficanti di esseri umani. Durante un’esercitazione, i sensori sono riusciti a identificare più di 600 imbarcazioni illegali al giorno. Sempre per l’identificazione di navi pirata, è in fase di sperimentazione anche il MQ-8B Fire Scout, un elicottero radiocomandato utilizzato prevalentemente per funzioni di raccolta, identificazione e sorveglianza al servizio dell’intelligence. Potrebbe però essere dotato di missili a guida laser e altri tipi di armi nei prossimi due anni. Ad ogni modo il Congressional Research Service, il centro di ricerca del Congresso, ha definito gli interventi militari statunitensi nel Golfo di Guinea come non più che “sporadici”. Come la maggior parte delle attività statunitensi nella regione, il comando AFRICOM sta cercando di conquistare una posizione di primo piano nella visione strategica di Washington sul resto del mondo.
Prospettive
Proprio mentre molti Paesi africani si avvicinano a un boom petrolifero, gli Stati Uniti stanno cercando di conquistare una certa indipendenza da tutte le fonti di petrolio estere. L’Africa è sottoposta alle medesime forze di destabilizzazione che caratterizzano anche il Medio Oriente e che hanno indotto gli USA a ricercare fonti di energia e sicurezza energetica all’interno dei confini nazionali. Ad esempio, in Nigeria, le ricorrenti fasi di instabilità nel Delta del Niger e gli attacchi a oleodotti e altre infrastrutture dell’industria petrolifera hanno fatto crollare la produzione di petrolio del 25 percento, con effetti significativi sui prezzi del greggio su scala globale. In un’epoca di continua recessione e tagli al bilancio da parte del governo degli Stati Uniti, è improbabile che il budget dell’AFRICOM nel continente africano sia destinato a crescere in misura significativa nei prossimi anni. Il risvolto positivo dei budget limitati è dato dal fatto che le forze armate statunitensi saranno costrette a proseguire la loro strategia di “presenza a basso impatto”, anziché lanciarsi in azioni massicce e ostentate come quelle che hanno innescato manifestazioni di rabbia e protesta in altre parti del mondo.
Il maggiore nodo da sciogliere, nell’ottica dei rapporti fra America e Africa, rimane comunque il fatto che nel mondo occidentale sia le autorità che l’opinione pubblica continuano a reputare l’Africa un consumatore di sussidi finanziari piuttosto che un continente che ospita alcune fra le economie in più rapida crescita su scala mondiale.