di MICHELE MEZZA           Â

La morte di Osama bin Laden sarà ricordata sicuramente come un’ennesima tappa dell’arricchimento digitale del modello industriale delle news.

Uno degli eventi più  riservati e strategici della storia, è stato raccontato, passo passo, quasi in real time, da vari testimoni che, pressocchè involontariamente, sono inciampati su scie di twitter che annunciavano, documentavano, riportavano, aspetti sostanziali dell’azione dei commandos americani in presa diretta.

Risultava singolare ascoltare redazioni che si contendevano il primato di aver rilanciato la notizia, rivendicando la propria capacità di aver  “letto” in diretta i lanci della CNN. Mentre da varie ore erano rintracciabili in Rete echi e rimbombi diretti dell’azione in corso nel fortino di bin Laden.

Rifacendoci alla fin troppo abusata metafora delle suole consumate dai cronisti, verrebbe da chiederci a quante scarpe corrisponde la capacità di cogliere in diretta un evento di tale portata, riuscendo a documentarne il mentre, quello che abbiamo definito la sesta “w” del giornalismo, la W di While?

Intendo dire che oggi l’autonomia e la competitività di una redazione poggia ormai sulla capacità di autoprogettare e ottimizzare la potenza della Rete più di quanto dipenda dalle gambe dei suoi cronisti. Questa è una conquista non una sconfitta da metabolizzare. Nelle ore dell’azione ad Abbotabad, riuscire a capire che qualcosa si stava muovendo, che era in corso un evento, avrebbe dato ad una testata il tempo e la materia per documentare direttamente la realtà, decifrando, con tempo e competenze sufficienti il gioco delle versioni. Almeno come ha potuto fare Keith Urban, il responsabile dello staff dell’ex ministro della difesa Rumsfeld, che, informato tempestivamente  della decisione finale di Obama, ha ritenuto di commentare, in diretta, su Twitter la morte di bin Laden.

Su questa traccia sono incappati parecchi navigatori organizzati, come Sohaib Athar, alias Really Virtual, il consulente informatico che aveva artigianalmente predisposto il proprio accaunt a raccogliere automaticamente ogni materiale della Rete sullo sceiccdo del terrore. Incredibilmente questa accortezza sembra che non sia stata adottata da nessuna redazione. Questione di tecnicalità o di cultura professionale?

Semmai qualcuno potrebbe obbiettarmi che il solerte Athar una volta raccolta la notizia non è riuscito a decifrarla e non si è accorto di cosa aveva in mano. L’osservazione coglierebbe un punto vitale del ragionamento: la strumentazione tecnologica è necessaria, ma non sufficiente. Così come oggi la competenza giornalistica rischia di essere frustrata dall’incapacità a supportarla con un ampio arco di fonti informative, mutuabili dalla Rete.

In sostanza il tema nelle redazioni oggi è il seguente: chi è in grado di governare i flussi digitali deve anche avere strumenti e competenze per leggerli, in tempo reale. Infatti si conferma sempre più imprescindibile la vecchia regola che accompagnò il lancio della CNN, or sono più di 30 anni: slow news no news.

Questo vale in economia, nella cronaca nera, nell’analisi politica, nei resoconti istituzionali, nello sport. Vale a tutte le latitudini, e su tutti i temi. Questo è il motivo per cui parte rilevante della nostra democrazia, della nostra ambizione di essere non semplici consumatori di comunicazione altrui, ma co-produttori autonomi, dipende ormai prioritariamente da come si riorganizzano le redazioni, da come si reingegnerizza il modello industriale delle news.

La fusione di Newsweek con il sito web Daily Beast è un esempio: una redazione si ricostruisce attorno alla potenza di un server, e  i giornalisti si guadagnano nuovo protagonismo proprio con la capacità di personalizzare le funzioni e le attività dello stesso server.

L’immobilismo del sistema informativo italiano, tutto centrato sul conflitto d’interesse e non su gli interessi concreti, condanna il nostro Paese, una realtà che vive di immagine e di scambio di senso comune, a rimanere subalterno. Siamo stati marginali ieri su bin Laden, lo saremo sempre se non diventiamo autonomi e sovrani nel leggere la realtà, con la velocità e la competitività che il mondo impone.

Non a caso il califfo del terrore è morto proprio quando ha scelto di vivere senza connettività in Rete. Bastava seguire twitter e avrebbe saputo che qualcuno stava per andarlo a trovare.

 

Michele Mezza

mediasenzamediatori.org

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