Per tenere a battesimo una nuova rubrica, un buon rituale raccomanda di ripartire dai fondamenti. E dunque, dalla stessa parola derivata dal latino “ruber”, che significa “rosso”. È plausibile che il significato di rubrica sia al tempo stesso intuitivo e segnaletico: il rosso stacca, tende a produrre concentrazione dell’attenzione, fino ad essere associato al concetto di pericolo (si pensi ad esempio al semaforo rosso). E allora è quasi una tautologia intitolare una rubrica alle novità della comunicazione: lo esige la parola-chiave, ma soprattutto la presa d’atto che il nuovo è strettamente associato ai media e alle tecnologie. Persino quando li consideriamo vecchi. La velocità del cambiamento è il tratto decisivo della fenomenologia dei media; o meglio, ne è forse il connotato più vistoso, con due risultati sconcertanti e non sempre percepibili allo sguardo: il cambiamento dei media attacca la comunicazione e ne destabilizza qualsiasi possibilità di offrirsi come piattaforma duratura; al tempo stesso, questo connotato così effimero ed aleatorio delle novità insidia alle fondamenta la possibilità di una lettura pretenziosamente scientifica dei cambiamenti. Studiare i media fa letteralmente venire il mal di testa. Un antidoto a tale disagio ci mette di fronte a un bivio: domandarci cosa resterà di tutto ciò su cui impazientemente teorizziamo, ma anche censire periodicamente le sviste, le euforie e i bluff del dibattito culturale delle stagioni precedenti. Soccorre qui il classico aforisma di Borges: “Quando incontri un bivio, imboccalo”. Dunque cercherò di concentrare l’attenzione di questa rubrica su una strategia d’interrogativi che, almeno negli intenti, punti a selezionare temi e parole con cui ci misureremo anche domani.
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Questo primo appuntamento si concentra allora sul nodo del rapporto tra vecchie e nuove forme di comunicazione. Dove passano davvero i cambiamenti? E ancor più radicalmente, come si distinguono quelli superficiali, attinenti semplicemente alla sfera espressiva, da quelli profondi e duraturi? Si potrebbe ipotizzare che appartengano a questa seconda tipologia la modificazione delle relazioni tra gli uomini, i rapporti con l’Altro e la percezione del potere dell’uomo rispetto alla vita e al tempo, il valore dell’intersoggettività. Prima ancora delle risorse economiche, è qui che si giocano le sfide della realizzazione individuale, la matrice dei desideri e delle aspettative dei moderni. Ed è qui che si esplicitano le ragioni che hanno fatto la storia e la fortuna dei media.
Tre giorni dopo la nascita della tv un giornalista come Luigi Barzini, in un citatissimo articolo su La Stampa, intuì il veloce successo del mezzo televisivo, legandolo soprattutto alla capacità di istruire e commuovere grazie alla forza dell’immagine intrecciata alla parola e al suono. A distanza di più di mezzo secolo da quel momento, si può ricorrere alle stessa figura retorica per descrivere il boom dei cosiddetti nuovi media. È un chiaro segno di continuità tra le aspettative delle persone nei confronti dei mezzi di comunicazione vecchi e nuovi, anche in contesti socio-culturali ed economici diversi. Nonostante la velocizzazione dei processi di cambiamento tecnologico, le mappe delle parole chiave che utilizziamo per descrivere la società reale o ambientata tecnologicamente sono sempre le stesse: identità, società/gruppi/reti, comunità/community, socializzazione, crisi, etc.. Ma la grande evoluzione è data dalla coraggiosa sperimentazione che il soggetto attiva in ambienti mediali, attuata spesso quale soluzione sostitutiva rispetto all’immobilismo espressivo e alle difficoltà di autorealizzazione nel campo della vita sociale. È una prova di continuità rispetto a quanto studiosi illustri come Morin avevano previsto di fronte alla funzione dei media mainstream, e cioè la loro capacità di permettere la sperimentazione di fatti e comportamenti faticosamente realizzabili nella vita quotidiana.
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Ce n’è abbastanza per giustificare un focus sulle letture del cambiamento nella comunicazione di questo millennio. Ricordando tuttavia che le trasformazioni tecnologiche senza la capacità e l’impegno culturale delle persone sono inutili, retoriche o modaiole. Ma sono anche pericolose: le metamorfosi non dominate dagli attori sociali non ce la fanno a diventare cambiamento e tendono a generare crisi; per questo essa è così centrale nel dibattito politico e mediale. Nei momenti di crisi più acuta il nostro atteggiamento di resistenza al cambiamento si esprime nella tendenza al divertimento ed al teatrino della comunicazione.
Ci vuole il coraggio della discontinuità: assumere i dati e le interpretazioni come timone per una lettura attenta di ciò che c’è davvero di nuovo nella comunicazione.
Mario Morcellini
Preside della Facoltà di Scienze della Comunicazione
Università “La Sapienza”