di DAVIDE BORRELLI

 

Viviamo in tempi di crisi globale. Crisi economica, sociale, politica evidentemente, ma anche crisi che investe i modelli di socializzazione delle forme simboliche e culturali, e quindi le tradizionali istituzioni della comunicazione e le industrie mediali. Mihaela Gavrila, con il suo ultimo libro sulla tv – “La crisi della tv. La tv della crisi. Televisione e Public service nell’eterna transizione italiana” (edito da FrancoAngeli) – ha il merito di portarci con sicura competenza e rara perspicuità nel cuore della crisi che sta mettendo in discussione il patto comunicativo di lungo corso che gli italiani hanno praticato con i linguaggi audiovisivi fino ad oggi. E lo fa senza enfasi apocalittiche e senza entusiasmi palingenetici, ma con l’abito spinoziano di chi antepone l’intelligere al lugere e al ridere, cioè la virtù della comprensione sistemica allo spirito miope o partigiano di chi depreca e di chi loda.

Commetteremmo un grave errore, ci avverte l’autrice, se ci limitassimo a considerare la crisi solo come un momento di decadenza e negatività. Crisi è parola che deriva dal verbo greco krino, il cui significato è “giudicare, vagliare, scegliere”. E allora la crisi è esattamente il momento della scelta, l’occasione per fare un bilancio su quello che nella transizione al digitale ci possiamo permettere di abbandonare al passato e quello che invece sarebbe opportuno che ci impegnassimo a traghettare e, semmai, a valorizzare nel futuro.

La digitalizzazione delle piattaforme comunicative, ad esempio, ci fornisce un punto di osservazione privilegiato per comprendere la natura del cambiamento che stiamo vivendo. Grazie alla rivoluzione digitale vengono meno alcuni dei motivi strutturali che storicamente hanno indotto i detrattori della tv a criticarne la bassa qualità. In primo luogo, il fatto che fosse costretta ad inseguire vaste platee di audience perché condizionata agli interessi dei pubblicitari piuttosto che ai bisogni del pubblico, e poi il suo carattere di comunicazione di flusso, condizione che ha sempre impedito di fruire del prodotto televisivo con la medesima attenzione che si presta ad altri oggetti culturali come il libro che si legge, e spesso si rilegge e si approfondisce, dove e quando si vuole. Ebbene, oggi la tv della banda larga (in cui non ci sono più limiti tecnologici all’offerta trasmissiva) non presta più il fianco alla prima accusa dal momento che l’avvento del modello di business della pay per view consente alle industrie audiovisive di considerare i pubblici come stakeholder determinanti, in quanto principale fonte di redditività. E quanto alla seconda recriminazione, anch’essa appare largamente superata dato che grazie alla tecnologia digitale la tv tende a funzionare sempre meno come medium che funziona per flussi istantanei, dal momento che si avvicina progressivamente al modello della libreria consultabile on demand.

Dobbiamo dimenticare l’ormai logora immagine del telespettatore couch potato che trascorre il suo tempo libero in poltrona mentre trangugia patatine fritte incollato passivamente davanti alla tv. L’utente dei media sta cambiando pelle: non più solo consumatore di trasmissioni rivolte a lui, ma lui stesso agente di produzione e condivisione di contenuti, e in quanto tale attivo costruttore di un ambiente comunicativo davvero comune, in cui ha modo di riconoscersi e di partecipare.  

Questo non significa che la comunicazione mainstream è destinata a scomparire e ad essere sostituita da Internet. L’autrice chiarisce con grande lucidità questo aspetto, argomentando la funzione di collante del tessuto sociale che la comunicazione di tipo broadcasting continuerà a svolgere. Se Internet favorisce la formazione di enclave comunicative in cui le persone tendono a comunicare tra pari, alla tv – anche alla “tv della crisi” – continuerà a spettare il compito ineludibile di garantire un’arena collettiva in cui persone diverse possano guardare i medesimi contenuti e confrontarsi sugli stessi temi. Il modello di cultura mainstream non è affatto in crisi, come sostiene Frédéric Martel nel suo recente Mainstream. Come si costruisce un successo planetario e si vince la guerra mondiale dei media. Ad essere in difficoltà sono istituzioni, apparati e industrie mediali che, come avviene nell'”eterna transizione” italiana, scontano gravi ritardi strutturali, normativi e culturali, non riescono a stare al passo con il cambiamento e con le scelte che esso impone (ancora una volta la crisi come snodo ed occasione per operare scelte di sistema), e per questo sempre più spesso si trovano ad essere scavalcati da produttori di cultura che da Paesi emergenti si fanno largo nel mercato mondiale delle comunicazioni.

In definitiva, il libro si rivela un valido strumento per uscire indenni dalla crisi della tv e una preziosa bussola per navigare negli orizzonti, ancora incerti e bisognosi di scelte, della tv della crisi.  

 

Recensione di Davide Borrelli
ricercatore di Sociologia dei Processi Culturali e Comunicativi

Dipartimento di Scienze sociali e della comunicazione

Università del Salento

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