Solo qualche settimana, durante le celebrazioni pasquali, in Sri Lanka si sono verificate stragi di matrice terroristica. Qual è stata la prima reazione? Bloccare l’accesso ai social perché la comunicazione del terrore passa soprattutto attraverso di essi.
Sicuramente l’adozione di questa misura nasce da un’esigenza pratica, quella di condurre, senza influenza mediatica, le indagini.
In via generale, è chiaramente intuibile come il blocco non sia risolutivo, ciò, non solo perché il proibizionismo se portato a estreme conseguenze non si rivela efficace, ma soprattutto perché i moderni sistemi tecnologici sono ormai in grado di eludere il divieto, attraverso ad esempio reti private virtuali (VPN). Queste, sorte come strumenti di libertà per combattere la censura imposta da regimi non democratici, oggi si rivelano sempre più utilizzate per fomentare la violenza in Rete.
“Chiudete Internet!” è questo l’appello che ha dato il titolo al recentissimo pamphlet del giornalista Christian Rocca. Certo una provocazione, quella lanciata dal saggista, o meglio, come lui stesso la definisce “una modesta proposta”, che al di là dello slogan, pone una sfida ambiziosa per rivendicare i nostri diritti digitali: la necessità di regolamentare le grandi piattaforme.
Dinanzi alla promessa, inesaudita, di una nuova libertà i Big Tech, invece, stanno alimentando complottismo, dilettantismo, e disinformazione. La cronaca, anche più recente, ce lo dimostra e le iniziative assunte sembrano proporre un valore diverso.
Una prima riflessione consente di rilevare come una simile misura sia frutto di una sempre più consolidata consapevolezza verso quei pericoli che in Rete minacciano le democrazie. Del resto, il binomio odio-disinformazione non può che aggravare una situazione già delicata.
Una seconda considerazione riguarda la mutata sensibilità da parte dell’opinione pubblica. Fino a qualche tempo la misura sarebbe stata tacciata come grave atto di censura, contro una presunta libertà di comunicazione in nome della quale si celano, in realtà, ripetuti attacchi di destabilizzazione delle società moderne.
Non si tratta certo di allarmismo, ma di constatazioni riconosciute a livello mondiale.
Recentemente, l’Onu ha sottolineato come Facebook abbia svolto un ruolo determinante nella crisi in Myanmar, lasciando che si diffondessero incitamenti all’odio e alla violenza contro i Rohingya, la minoranza musulmana perseguitata e fuggita in Bangladesh. Nell’ex Birmania, su una popolazione di 53 milioni, più di 14 milioni usano il social e secondo un rapporto 2016 GSMA, associazione che rappresenta gli interessi degli operatori mobili, molti considerano il social l’unico punto di accesso per le informazioni online e i post come notizie al pari di quelle lette sui giornali.
Per comprendere l’impatto del fenomeno disinformativo sugli equilibri sociali, basti pensare a quanto accaduto in India la scorsa estate, quando, a seguito di alcuni video, diffusi su WhatsApp, poi diventati virali, che mostravano un presunto rapimento di bambini, uomini appartenenti a una comunità nomade sono stati linciati dalla folla perché accusati (senza alcuna prova e in modo completamente arbitrario) di essere i responsabili del crimine. Ma dietro queste violenze, secondo alcune notizie riportate dal The Guardian , vi sarebbe l’intensa crescita del sentimento nazionalista e l’intento di eliminare immigrati o soggetti non appartenenti alle comunità locali.
In Europa per combattere questi fenomeni, la Commissione libertà civili e giustizia del Parlamento europeo è intervenuta con una proposta di regolamento sulla prevenzione della diffusione di contenuti terroristici online. Ma non vi è un obbligo per gli hosting service provider, di monitorare attivamente cosa viene caricato dagli utenti. Elemento in parte positivo perché non lascia all’autonomia di privati la decisione su ciò che deve o non stare online, dando luogo a fenomeni di censura automatica, ma che potrebbe deresponsabilizzarli ulteriormente e rendere l’intervento non tempestivo, in quanto affiderebbe la rimozione dei contenuti alla segnalazione delle autorità competenti.
Anche sul fronte politico-elettorale la situazione non è confortante. Secondo Tristan Harris, direttore e cofondatore del Center for Humane Technology, in Brasile, il Presidente Bolsonaro sarebbe stato letteralmente eletto da Facebook. Sul social sarebbero state diffuse informazioni poi rivelatesi veritiere solo nell’8% dei casi.
L’atto di accusa ai giganti della Silicon Valley non è sicuramente isolato. Solo qualche settimana fa, durante i Ted Talks di Vancouver, il discorso di Carole Cadwalladr ha nuovamente riacceso le polemiche sulla Brexit.
L’influenza di Facebook, secondo la giornalista dell’Observer e autrice dell’inchiesta che ha svelato lo scandalo Cambridge Analytica, è stata decisiva anche sull’esito del referendum in Uk. Il 62% della popolazione ha votato per lasciare l’Ue, ma le ragioni sarebbero imputabili al social che, mediante post sponsorizzati da alcune fazioni politiche, avrebbero rappresentato l’Europa in modo catastrofico. Un’accusa grave, ma ben più grave è “non c’è traccia di nulla, buio assoluto”. Su Facebook, ha sottolineato la Cadwalladr, “non ci sono archivi degli annunci pubblicitari o di quello ciascuno di noi ha visto sul proprio “news feed”.
IL “PRODOTTO” INFORMAZIONE
Non occorre ricordare come l’informazione sia considerato un bene pubblico di rilevanza costituzionale, la cui tutela è stata recentemente sottolineata dal Capo dello Stato, Sergio Mattarella , frutto di quella sensibilità sorta già nel secondo dopoguerra. Come nel secolo scorso, si fa sempre più pressante quell’interesse generale di tutela, non solo dell’informazione, ma anche della produzione culturale indipendente, intesa come bene pubblico «non rivale» e non esclusivo e attraverso il quale il cittadino conquista una consapevolezza critica dell’attualità.
Il “prodotto” informazione allora è un bene non equiparabile ad altri, ma chiama in causa un supremo interesse volto a garantire obiettività, completezza, lealtà e imparzialità, nonché la pluralità di voci.
Nel nostro Paese, per sostenere questo modello, ci si è ispirati a un modello misto in cui gli stanziamenti pubblici sono combinati con i proventi della pubblicità e di altre attività commerciali.
Un meccanismo messo in crisi dai grandi giganti tecnologici, accusati – spesso a ragione – di diffondere notizie seguendo le logiche commerciali dei click sensazionistici, ma anche di promuovere un sistema di business distorto. L’intermediazione offerta dalle piattaforme, oltre alla conseguente detenzione esclusiva dei dati raccolti, contribuisce a sottrarre alla informazione giornalistica anche la principale fonte di finanziamento, ossia la raccolta pubblicitaria. Un processo che rischia di danneggiare in modo durevole la qualità, implicando inevitabilmente una contrazione degli investimenti in informazione primaria, con conseguenti rilevanti anche per il dibattito democratico.
Il fenomeno di contrazione delle risorse infatti investe da un lato l’esercizio della professione giornalistica (complice il ridimensionamento della componente redazionale all’interno dei media tradizionali) e dall’altro conseguentemente la qualità del prodotto offerto (che sconta modalità di ricerca e approvvigionamento proprie delle fonti di informazione non specialistica).
Del resto, la riaggregazione di contenuti che viene effettuata nell’offerta informativa online, è il più delle volte gratuita e viene remunerata dalla pubblicità legata all’audience del sito, il che significa che tali servizi competono direttamente con gli stessi editori per l’acquisizione di quote pubblicitarie, senza però sopportare i costi di produzione delle notizie.
Le tecniche della comunicazione commerciale poi se pericolosamente applicate a quella politica rischiano di diffondere una concezione essenzialmente competitiva del sistema. Accanto a un utente altamente influenzabile dai messaggi commerciali, si potrà ritrovare un utente dominabile dal punto di vista informativo.
VERSO L’ELIMINAZIONE DEI CONTRIBUTI ALL’EDITORIA: L’INFORMAZIONE RESTA ANCORA UN BENE PUBBLICO?
Ecco che allora il problema riguarda anche la composizione del mercato e la sua sostenibilità.
L’offerta informativa online è composta per una grossa parte da piccoli editori, la cui operatività è messa sempre più a rischio, con significativi effetti di concentrazione in favore di pochi soggetti che primeggiano nel mercato pubblicitario. Se si considerano i ricavi da raccolta pubblicitaria online emerge un andamento fortemente asimmetrico, in cui la testa della distribuzione è formata dal 2% dei soggetti (che gestiscono circa l’80% della pubblicità in rete in Italia), mentre la coda dal restante 98% degli operatori.
Sul fronte delle sovvenzioni pubbliche, solo di recente la disciplina sui contributi a sostegno dell’editoria – e poi il decreto attuativo – hanno preso più concretamente in considerazione il tema del digitale e cercato di stimolarne il processo. Lo scopo dell’intervento è stato quello di sostenere la transizione dalla carta al web. Elemento che però si è posto a beneficio principalmente delle testate offline già note e autorevoli, limitando invece l’apporto per quelle native digitali, con la conseguenza che lo scenario delineatosi sia sempre più caratterizzato da un modello ibrido offline-online.
Le novità, poi, introdotte dalla legge di bilancio 2019, che ha previsto la progressiva riduzione, fino alla totale abolizione dal 1° gennaio 2022, dei contributi concessi, ai sensi del d.lgs. 70/2017, ad alcune categorie, rischia di non solo di non agevolare un settore già in crisi , ma anche di porre in discussione il ruolo dell’informazione: essa può ancora dirsi un bene pubblico? La stiamo adeguatamente tutelando?
Si tratta sicuramente di una provocazione, ma, pur non volendo entrare nel dibattito politico, ritengo che lasciare nelle mani di un mercato, ormai in balia dei meccanismi pubblicitari imposti dai Big Tech, un bene così prezioso possa suscitare più di un dubbio.
Non dimentichiamo che il crollo dei ricavi editoriali non è legato solo a un problema di ordine economico e finanziario, ma può rappresentare una criticità per l’intera società civile. Del resto, quando le informazioni mancano, le voci crescono.
THE INTERNET NEEDS NEW RULES
Non è un caso che anche Mark Zuckerberg al Washington Post abbia rilevato che “the Internet needs new rules”: dalla lotta ai contenuti lesivi, alla protezione dell’integrità delle elezioni dai tentativi di manipolazione, alla tutela della privacy, fino alla portabilità dei dati.
Per raggiungere questi obiettivi, Zuckerberg riconosce una particolare responsabilità a carico delle piattaforme, ma, come spesso avviene, a grandi parole, corrispondono pochi fatti.
Questo sembra emergere anche dalle ultime relazioni pubblicate a fine aprile dalla Commissione europea sui progressi di Facebook, Google e Twitter nel contrasto online alla disinformazione nell’ambito degli impegni assunti con la sottoscrizione del Codice di condotta . Tutte e tre i colossi hanno iniziato a segnalare i messaggi pubblicitari di natura politica sulle loro piattaforme. In particolare, Facebook e Twitter hanno reso accessibili al pubblico le biblioteche di pubblicità politica, mentre la biblioteca di Google è entrata in una fase di test. Sono stati adottati strumenti per migliorare il controllo del posizionamento delle notizie, fornito un aggiornamento sulle politiche relative agli annunci elettorali. Misura sicuramente utili soprattutto in vista delle elezioni europee del prossimo maggio, ma non sufficienti. “Sono necessari ulteriori miglioramenti tecnici e la condivisione della metodologia e dei set di dati per i profili falsi, in modo da consentire agli esperti di terze parti, ai verificatori di fatti e ai ricercatori di condurre valutazioni autonome”, si legge in una nota congiunta a firma del Commissario responsabile per il mercato unico digitale, Andrus Ansip, della Commissaria per la Giustizia, i consumatori e la parità di genere, Vĕra Jourová, del Commissario europeo per l’unione della sicurezza, Julian King, e della Commissaria responsabile per l’economia e la società digitali, Mariya Gabriel.
Il disappunto di Bruxelles riguarda la trasparenza delle campagne di sensibilizzazione, ossia quelle pubblicità su questioni che sono oggetto di importanti dibattiti durante le elezioni.
Certo gli sforzi compiuti dalle piattaforme sono apprezzabili in un’ottica di co-regolamentazione, in attuazione di quel Codice di buone pratiche contro la disinformazione, che le impegna a riferire mensilmente sulle loro azioni in vista delle prossime elezioni per il rinnovo dei membri del Parlamento europeo. Ma se anche a livello sovrannazionale riecheggia il monito di un impegno più forte, allora probabilmente è la misura rimediale che necessita di un ripensamento.
CONCLUSIONI: LA COREGOLAMENTAZIONE BASTA?
In dottrina, le scuole di pensiero si sono imbattute in un acceso dibattito tra la necessità di un intervento ex ante o uno ex post: regolazione o antitrust?
Promuovere la concorrenza “per” il mercato, eliminando le barriere all’ingresso, ma anche quella concorrenza “nel” mercato che consente ai consumatori di non restare intrappolati in fenomeni di lock-in.
Da un lato quindi occorre incentivare l’ingresso di nuovi operatori ed evitare condotte escludenti che rafforzino la posizione di grandi players digitali. Non dimentichiamo l’insidiosa pratica, ormai consolidata, delle killer acquisitions, in base al quale le imprese dominanti acquisiscono piccole start-up con basi di utenti in rapida crescita che altrimenti si sarebbero sviluppate in rivali importanti. Era il 2014, quando, dopo una corte spietatissima, Facebook annunciava di aver acquisito WhatsApp, per 19 miliardi di dollari. Ancora prima, nel 2012, Mark Zuckerberg, per una cifra complessiva di un miliardo di dollari, poi scivolata a 715 milioni a causa della svalutazione delle azioni comprese nel pacchetto, acquistava Instagram.
Dall’altro consentire in modo concreto portabilità dei dati e interoperabilità delle piattaforme. In questo senso, il recente rapporto su Competition Policy for the digital era, pubblicato dalla Commissione europea lo scorso 4 aprile, ha in modo netto rilevato come i mercati digitali richiedano una rigorosa applicazione della politica di concorrenza, sostenendo che gli incumbent digitali sono molto difficili da rimuovere e possono avere forti incentivi a comportamenti anticoncorrenziali.
Tutto vero. Elevate economie di scala, rilevanti esternalità di rete, ampi volumi di dati sono stati da sempre i punti su cui è necessario un intervento antitrust. Ma al report della Commissione si affianca (o forse si contrappone) quello della House of Lords, pubblicato lo scorso 9 marzo, Regulating in a digital world. Non si tratta di uno scontro dottrinario, ma di sistema. Intervenire ex ante consente infatti di agire in modo tempestivo, prevenendo le distorsioni del mercato e tenendo conto più propriamente di questioni di interesse pubblico, oltreché del funzionamento del mercato. Ecco che allora se lo scopo è ancora quello di tutelare il Bonum Communis, quel bene che va anche al di là del “commodo pecuniario” e della sfera meramente economica , una regolazione fondata su principi di parità, responsabilità, trasparenza, apertura, riservatezza, etica, uguaglianza, educazione al mezzo comunicativo, sembra costituire una valida soluzione per un governo della Rete e per disvelare una scena del delitto in cui la vittima potenziale è la nostra democrazia!