Medio Oriente

L’attesa della risposta israeliana ai missili iraniani della settimana scorsa si prolunga e diventa agonia diplomatica, con la telefonata tra il presidente Usa Joe Biden e il premier israeliano Benjamin Netanyahu, mentre l’esercito israeliano prosegue la campagna militare contro Hezbollah in Libano e contro Hamas a Gaza.

Nell’anniversario del 7 ottobre, Netanyahu si impegna a “continuare a combattere”, anche se, dopo un anno di guerra, Israele non ha raggiunto nessuno degli obiettivi che s’era prefisso: l’eradicazione di Hamas dalla Striscia di Gaza, la liberazione degli ostaggi, il ritorno a casa di decine di migliaia d’israeliani costretti ad abbandonare le loro case nel Nord del Paese dallo stillicidio di razzi.

Sullo sfondo, c’è l’Iran, regista e finanziatore di tutte le azioni anti-israeliane, con la sensazione, o l’illusione, di un cambio di regime a Teheran. Secondo il New York Times, Israele, dando ascolto agli Stati Uniti, avrebbe rinunciato a colpire i siti nucleari iraniani, puntando su basi militari e centri di intelligence.

La diplomazia appare debole: Joe Biden – secondo Cnn – avrebbe ormai abbandonato le speranze d’una tregua e si limita a cercare di “moderare” la campagna militare israeliana. Invece, la sua vice e candidata democratica alla Casa Bianca Kamala Harris coltiva la speranza di un’intesa su Gaza: “Abbiamo bisogno di un cessate-il-fuoco e del rilascio degli ostaggi al più presto… Questa guerra deve finire… “.

Le operazioni militari, aeree e di terra, continuano a Nord, in territorio libanese, e a Sud, a Gaza, dove Israele ordina l’evacuazione a residenti che non sanno più dove andare. L’esercito israeliano ha in corso un’operazione terrestre nel sud-ovest del Libano, schierando quattro divisioni, inclusa una di riservisti – in tutto, circa 15 mila soldati – e annuncia l’uccisione, non confermata, di capi Hezbollah, il ‘partito di dio’ già decapitato del suo leader.

La notte e il mattino, gli attacchi aerei sulla capitale Beirut proseguono. Hezbollah risponde sparando razzi verso una base dell’intelligence a Tel Aviv e attaccando, senza però fare vittime, distaccamenti israeliani dislocati a Shlomi, Hanita e Marj, Il ‘partito di dio’ accusa Israele di usare come scudi umani i militari dello Unifil: secondo Al Jazeera, fotografie satellitari mostrano 40 veicoli militari israeliani attorno al quartier generale della missione di pace Onu, a Maroun al-Ras, nel sud del Libano. A sua volta, l’Unifil riferisce che “l’impatto umanitario dell’offensiva israeliana è catastrofico”.

Il numero due di Hezbollah, Naim Qassem, dichiara di sostenere un cessate il fuoco con Israele. Alla Bbc, il sindaco di Beirut Abdallah Darwich dice che “non ci sono posti al sicuro” in città, perché nessuno conosce gli obiettivi israeliani.

 Israele: un anno dopo, più rischi di allargamento del conflitto che speranze di pace
E’ passato un anno dall’orrore dell’alba tragica del 7 ottobre 2023: 1200 israeliani uccisi, uomini, donne, bambini, e oltre 250 presi in ostaggio da terroristi di Hamas e di altre sigle palestinesi; e, dopo, l’anno di guerra nella Striscia di Gaza, più di 41 mila vittime palestinesi, soprattutto donne e bambini, e centinaia di militari israeliani caduti – 730, la cifra ufficiale -. Morti e devastazioni, lutti e dolori, anche altrove: in CisGiordania, in Libano, in Iran, tra Yemen e Mar Rosso.

Un conflitto senza sbocchi: la soluzione della ‘questione palestinese’, e anche solo il futuro assetto della Strscia di Gaza, non sono più vicini oggi che un anno fa; e, anzi, la prospettiva più immanente è quella di un allargamento delle ostilità su scala regionale, con l’inasprirsi dello scontro tra Israele e Iran.

I media hanno ricordato l’anniversario con toni e modi diversi. Le istituzioni internazionali celebrano i riti della loro impotenza a dare una risposta ai problemi, a fare cessare la carneficina. Quella dell’Onu è manifesta dall’inizio della crisi ed è stata sciorinata agli occhi del Mondo a fine settembre, quando la sfilata di leader all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite se, al solito, ridotta a una sequela di discorsi non connessi l’uno all’altro e sterili. Quella del G7, sotto presidenza di turno italiana, emerge dalla riunione convocata d’urgenza la scorsa settimana e risoltasi in appelli e moniti, mentre l’incontro dei ministri dell’Interno segnalava il rischio crescente di attacchi terroristici a causa dei conflitti globali.

Il New York Times offre una prospettiva statunitense. Forse per indorare la pillola dell’inefficacia e delle indecisioni della diplomazia ‘a stelle e strisce’, scrive che prima delle elezioni presidenziali del 5 novembre le guerre, dal Medio Oriente all’Ucraina, andranno aggravandosi, senza però sfociare nella Terza Guerra Mondiale – e, su questo almeno, speriamo che abbia ragione -. Politico, nella sua versione europea, sottolinea che il conflitto e l’anniversario espongono alla luce del sole “le divisioni dell’Europa”, oltre che l’impotenza. Quando il presidente francese Emmanuel Macron invita i governi a smetterla di vendere armi d’attacco a Israele, la proposta trova qualche eco positiva, ma non significativa.

Al Jazeera si limita alla cronaca, che è quella di uno qualsiasi di questi 365 giorni senza pace: Hamas spara razzi verso Israele e le sirene che suonano per l’anniversario si mescolano a quelle che danno l’allarme; Israele conduce raid aerei e operazioni di terra nella Striscia, bombarda la periferia di Beirut ed espande l’offensiva di terra nel Sud del Libano; e tiene sotto scacco Teheran garantendo ritorsioni.

Scrive nei suoi Appunti Stefano Feltri: “Il massacro di Hamas ha innescato una catena di violenze tra persone che non si conoscono più: i cittadini di Gaza, gli israeliani, gli studenti che protestano nei campus americani” e nelle città italiane ed europee. Nuovi crinali dividono le nostre società, dove riaffiora uno spettro del passato, l’antisemitismo, e dove diventa assurdamente difficile tenere distinta la critica – legittima e giustificata – all’operato di un governo oltranzista, quello del premier Benjamin Netanyahu, che – dice – “fa la guerra per preparare la pace” da atteggiamenti settari e razzisti nutriti di odio e di violenza.

In questo contesto, è ipocrita scandalizzarsi di fronte all’ipotesi che l’Iran, umiliato dall’uccisione del leader di Hamas a Teheran Ismail Haniyeh, e dopo i colpi inferti ai suoi alleati, valuti se dotarsi dell’atomica, dopo che, nel 2015, si era impegnato a rinunciarvi, con un accordo sottoscritto da Usa, Gran Bretagna, Francia, Germania, Russia e Cina e riconosciuto dall’Onu e dall’Ue, ma poi denunciato nel 2017 dall’allora presidente degli Stati Uniti Donald Trump.

Il rovello è se quella della vendetta senza fine sia la strada giusta per sconfiggere il fanatismo o non sia il modo per nutrirlo e perpetrarlo: ogni bomba che uccide un terrorista, e con lui degli innocenti, ne fa nascere decine. Papa Francesco osserva che “la miccia dell’odio, divampata un anno fa, non si è spenta, ma è deflagrata in una spirale di violenza” anche a causa della “vergognosa incapacità della comunità internazionale e dei Paesi più potenti di fare tacere le armi e porre fine alla tragedia della guerra”.

Di fronte agli atteggiamenti a tratti irresponsabili e sconcertanti, a tratti remissivi e inconcludenti, della comunità internazionale, le parole del presidente della Repubblica Sergio Mattarella hanno spessore e profondità. Mattarella mette tra le priorità, dopo avere rimarcato la vicinanza a Israele e la “ferma condanna” per il “barbaro attacco”, l’immediata liberazione degli ostaggi di Hamas e l’urgenza di sottrarre la popolazione di Gaza alla guerra e si raggiungere una soluzione negoziata “definitiva” tra Israele e Palestina che preveda la creazione di due Stati sovrani e indipendenti.

 

 

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Giampiero Gramaglia
Giornalista, collabora con vari media (periodici, quotidiani, siti, radio, tv), dopo avere lavorato per trent'anni all'ANSA, di cui è stato direttore dal 2006 al 2009. Dirige i corsi e le testate della scuola di giornalismo di Urbino e tiene corsi di giornalismo alla Sapienza.