Non sprecare la crisi vuol dire soprattutto porre le condizioni perché le innovazioni di sistema in grado di accrescere la nostra competitività e la nostra qualità della vita possano essere immaginate, realizzate ed applicate. In questo la pubblica amministrazione ha una responsabilità senza pari. Certo non può far tutto da sola, deve essere sempre più aperta al dialogo e ai contributi che vengono dalle imprese, dalle università, dal terzo settore, dai singoli cittadini, ma è alla PA che si sono rivolte e si rivolgono le speranze e le attese. Questa nuova importanza della mano pubblica è stato forse l’effetto più immediatamente visibile del grande sconquasso, ma se la stessa PA non cambia questo effetto e nasconde veleno nella sua coda. La domanda giusta, parlando dell’uscita del Paese dalla crisi, non è quando ne usciremo, ma come. L’Italia è entrata infatti nella crisi globale già in gravi difficoltà, con pesanti svantaggi competitivi rispetto agli altri paesi ad economia avanzata, con il fiato corto per dotazione infrastrutturale, per innovazione, per mobilità sociale. Sono cose che sappiamo, cose vecchie diranno molti, ma è bene ricordarcele ora che da più parti si misura la fine del tunnel dal tempo necessario per tornare come prima. Come prima? No grazie. Riprendo quindi, senza l’ambizione di essere né esaustivo né originale, alcuni numeri noti a (quasi) tutti e le cui cause sono ben precedenti alla crisi. Sono tutti dati su rilevazioni “prima” del famoso crack della Lehman Brothers. Tornare come prima? No grazie. Italia 48ma in competitività secondo il Word Economic Forum, fanalino di coda dell’Europa; nel 2008 era 49ma. Ci penalizza soprattutto il settore istituzioni, la scarsa fiducia dei cittadini, il sistema della giustizia. Siamo un Paese bloccato perchè nel 2008 (prima del clou della crisi mondiale quindi) il 41% dei cinquantenni riteneva di avere uno stato sociale migliore di quello della famiglia di origine; solo il 6% dei ventenni era dello stesso avviso. L’Italia ha il più alto indice di disuguaglianza in Europa nella distribuzione dei redditi. L’Italia è al 20° posto su 27 per la fiducia verso le transazioni in Internet, ed è spaccato in due sul fronte reddito con un Centro-Nord a reddito maggiore del 20% della media nazionale. Inoltre discrimina donne e giovani. Per il lavoro femminile la media europea si aggira sul 57,4% e quella italiana è fissa sul 46,3%. Penultimi, appunto, nell’Europa dei 27 paesi membri, a dieci lunghezze dall’isola di Malta. Infine ecco un Paese che non scommette sull’innovazione: l’European Innovation Scoreboard, pubblicato dall’Unione Europea, posiziona l’Italia come l’ultimo dei Paesi “moderatamente innovatori”. Se la responsabilità è diffusa e i ruoli da giocare sono tanti, quello decisivo spetta alla politica, maggioranza e opposizione. Ed è il ruolo di immaginare oggi, il domani migliore per il Paese e di agire con costanza e coerenza per arrivarci. Alla politica chiediamo di essere lungimirante: di agire oggi pensando a domani, di muoversi su scala locale, ma di pensare su scala globale. Chiediamo quindi di scegliere l’innovazione, di puntare sopra ogni cosa sugli asset della società della conoscenza: rete Internet a larga banda come diritto universale (la cittadinanza digitale), scuola, università, ricerca, trasferimento dell’innovazione. Il piano 2012, annunciato ma ad oggi ancora non divulgato dal Ministro per la PA e l’innovazione, può essere un buon banco di prova. Ma lo sarà solo se si accetterà di metter finalmente via la storiella, buona per addormentare i bambini, dell’innovazione a costo zero. Dobbiamo avere il coraggio di dire che introdurre innovazione, anche e forse soprattutto quando questa è foriera di maggiore efficienza, costa. Richiede investimenti certi e veloci Per questo servono scelte: scegliere di avere innovazione senza investimenti, facendo conto su un “dividendo dell’efficienza” per pagarsi l’investimento iniziale non sarebbe una scelta. O meglio sarebbe la scelta nel paese del Bengodi. Le scelte sono difficili perché sono dolorose: si deve scegliere di investire in una cosa e non in un’altra, di scontentare qualcuno. Dobbiamo avere però sempre presente anche il costo della non-innovazione e poi scegliere, perché questo è il compito della politica. Ma puntare sull’innovazione, anche se è un passo necessario e indispensabile, potrebbe non essere determinante se non cambia il contesto in cui usare i nuovi strumenti. Si può uscire dalla crisi con modelli vecchi, trascinati dalla ripresa europea o dalla crescita della domanda interna della Cina. Si può crescere con gli incentivi sulle auto, si può crescere incentivando l’arredamento o gli elettrodomestici. O si può provare a uscire dalla crisi investendo sulla mobilità sociale legata al merito, sulla scuola (per cui non ha senso parlare di vincoli di bilancio), sull’università, sulla ricerca, sui talenti e sulle infrastrutture di rete. Si può puntare sulle riforme, sull’innovazione nelle regole, nella gestione delle risorse umane, nella strumentazione hardware e software, nei nuovi servizi. Diversi saranno i modelli di Paese che ne deriveranno, diversa la distribuzione del reddito, diversi i comportamenti imprenditoriali. Quel che importa non è il quando, ma il come. E il come non può che scaturire, appunto, che da una svolta decisa, un cambio di valori e di priorità, un cambio sostanziale di paradigma che porti a condividere un grande patto per lo sviluppo che coinvolga tutte le componenti in un new deal coraggioso che non ponga tempo in mezzo, ma valuti sin da subito ogni azione in vista dell’obiettivo di un nuovo e sostenibile modello di sviluppo basato sull’innovazione. Per gli innovatori della pubblica amministrazione, delle imprese, della cittadinanza organizzata ed attiva, dei governi territoriali è il momento di far fronte comune, di individuare schieramenti trasversali (i conservatori sono in tutte le parti politiche), di imparare dalle migliori pratiche italiane e straniere. L’Italia non sarebbe la prima a farlo: Finlandia, Irlanda, Sud-est asiatico ci farebbero compagnia nel passato più vicino, California, Taiwan, Silicon Valley in quello più lontano. Più che investimenti servono scelte e coerenza nelle scelte; serve visione del futuro, serve svincolarsi dal consenso immediato. La proposta di Forum Pa: di fronte a questa situazione di oggettiva difficoltà strutturale, stratificata nel tempo, e alla sfida del cambio del paradigma di sviluppo che ci sta di fronte, Forum Pa si impegna con sempre maggior forza ad essere il luogo geometrico in cui si ritrovano, fisicamente e virtualmente, gli innovatori italiani che decidono di rimboccarsi le maniche e provare a dare una smossa a questo Paese. Per questo la politica dell’innovazione per uscire dal tunnel sarà il tema centrale della ventunesima edizione della Manifestazione che si terrà a Roma dal 17 al 20 maggio prossimi.