“Donna è innovazione” questa volta è Monica Peta, dottore commercialista, impegnata a sostenere il cammino verso ruoli apicali nelle aziende del mondo, di quante ne hanno titolo e capacità, tanto che è componente scientifico del progetto di ricerca “Il ruolo della donna nel mondo” dell’Unipace di Roma.
“Fotografiamo quanto succede nelle aziende tenendo conto delle specificità del contesto, per quanto riguarda le imprese del mondo della finanza è, già, emersa una evidente sotto rappresentazione delle donne nei ruoli apicali. Negli Stati Uniti dove le donne sono poco più della metà della forza lavoro, solo il 4,6% ricopre il ruolo di top manager. In Italia si registrano numeri ancora più bassi, meno del 2% delle imprese manifatturiere ha una donna come amministratore delegato”.
La leadership al femminile è ancora un’utopia …
“Dobbiamo lavorare sulla conoscenza ecco perché con la nostra ricerca proponiamo un’analisi delle relazioni tra le diverse leadership con particolare attenzione alle differenze salariali evidentemente, ma la novità è ragionare in termini di impatto sulla produttività”.
La presenza di una donna ai vertici delle aziende può quindi avere un impatto positivo sul fatturato?
“Il modo in cui noi ci relazioniamo è diverso da quello degli uomini, non per questo meno valido. Noi siamo vittime di pregiudizi atavici che non meritiamo, perché siamo portatrici anche di pace e armonia oltre che di competenze. Con la ricerca vogliamo sostenere questa tesi attraverso i numeri. Purtroppo, ancora oggi quando a esaminare una candidata è un amministratore delegato, la valutazione non viene fatta solo sulle competenze essenziali per il lavoro. Un dato di fatto legato alla cultura, alla nostra storia. Noi vogliamo che le donne, come gli uomini, siano valutate per competenze, capacità produttive e fatturati”.
L’Italia con il suo tessuto imprenditoriale di piccole e medie imprese prevalentemente a conduzione familiare ha molta strada da fare …
“Le società quotate sono poche, è vero, nel resto del mondo, però, abbiamo la possibilità di raccogliere dati che permettono di fare paragoni utili per capire se una più numerosa presenza femminile in azienda porta benefici. Per ora sappiamo che la gestione delle risorse umane è un settore chiave perché con più donne dentro l’azienda, la cultura della parità si diffonde più facilmente. Parlo di cultura volutamente perché la differenza di genere si fonda su miopie aziendali che ogni generazione eredita da quella precedente. È l’ora di cambiare”.
Nei paesi nordici stanno inserendo nelle aziende la figura del CHO (Chief Hapiness Officer), il manager della felicità, un incarico più femminile?
“Una figura innovativa destinata a curare il benessere dei lavoratori, a mio avviso rilevante proprio per il momento storico che viviamo. Infatti, le aziende hanno bisogno di superare gli effetti del Covid con nuove visioni. Queste figure manageriali focalizzate sulla cultura del benessere, importante per le imprese sostenibili, sono fondamentali per superare la crisi, per ora lo capiscono ancora in pochi. Bisogna ricordare che la misurazione della cultura e del benessere nelle aziende sta entrando a pieno titolo come nuova voce nel bilancio sociale. In America questi concetti sono già pratiche diffuse, ma anche in Europa il trend comincia a delinearsi”.
L’obiettivo finale della ricerca?
“Dimostrare che non c’è una disparità di genere nelle competenze, sono distribuite fra uomini e donne. Abbiamo più laureate, ma poi nel mondo del lavoro troviamo più uomini. Senza politiche sociali a sostegno della famiglia le donne saranno sempre penalizzate. Le infrastrutture sociali sono alla base del cambiamento epocale che non possiamo più procrastinare, per noi donne ogni percorso è a ostacoli. Li dobbiamo rimuovere con l’aiuto di tutti”.