Mettere faccia a faccia i criminali nazisti con la loro infamia, e catturare le loro reazioni. Le immagini avrebbero creato più livelli di significato. Foto e filmati dei campi di concentramento proiettati al centro di un’aula di Tribunale per mostrare al pubblico l’orrore, e un neon sopra il banco degli imputati per catturare il “contraccolpo” dei “macellai d’Europa”. Li definisce così Joseph Kessel, corrispondente di “France Soir” a Norimberga nel corso del processo che avrebbe segnato la storia dell’umanità, nel raccontare una forma di comunicazione scioccante e rivoluzionaria allo stesso tempo.
La fotografia, e i filmati, come nel caso appena descritto, al servizio della verità e della giustizia, cruda e decisiva. Il processo di Norimberga è uno degli undici casi-studio della mostra “Sulla scena del crimine – La prova dell’immagine dalla Sindone ai droni”, in programma a Torino dal 27 gennaio al 1 maggio 2016 e organizzata da “Camera – Centro Italiano per la Fotografia”. Si tratta di un percorso tormentato, lungo più di un secolo, che riguarda l’approccio scientifico alla macchina: siamo distanti dal campo artistico ma siamo comunque difronte ad un mezzo espressivo eccezionale alla ricerca di prove e di verità.
“La mostra prende in esame il modo in cui esperti, ricercatori e storici – spiega la curatrice Diane Dufour – usano le immagini come prova nei casi di crimini o atti di violenza. La fotografia registra, convalida e certifica. Quanto però è affidabile l’uso di un’immagine come prova, e che cosa possiamo realmente capire dal suo contenuto? Le fotografie documentano e rivelano, ma allo stesso tempo nascondono, spesso fornendo indizi fuorvianti, limitati o parziali rispetto a ciò che è avvenuto. Giungere alla verità – continua la Dufour – è un esercizio complesso e pericoloso”.
Più livelli, come si diceva prima, attraversano le immagini e giungono a noi, ultimi fruitori disincantati: dai primi scatti entrati nelle aule di tribunale fino alle foto satellitari usate dalle organizzazioni per i diritti umani per denunciare l’uccisione di civili, come nel caso degli attacchi con i droni. E quindi, come afferma Jennifer L. Mnookin, professore di Diritto presso la Ucla School of Law: “Le immagini possono effettivamente costruire una prova, ma la prova di cosa esattamente? Questa è una domanda a cui non può rispondere la fotografia da sola”.
La mostra ci svela il nostro bisogno di certezze e le prove accumulate come un tesoro, in un andirivieni di potenza del mezzo e limiti tecnici da superare. Si parte dalla “Fotografia metrica per scene del crimine” del 1902 e si arriva a “La distruzione di Koreme – Kurdistan iracheno mappare fosse comuni” del 2013, passando per “L’uomo della Sindone” del 1902-39, considerata la “prima fotografia criminale”. Ingrandimenti, macchie di sangue, analisi, effetti: l’occhio umano vede ciò che l’obiettivo e la macchina restituiscono, alla ricerca di fonti storiche che documentano processi troppo spesso dimenticati. I casi-studio “Il grande terrore dell’Urss – Ritratti delle vittime di un crimine di Stato” e “Il libro delle distruzioni di Gaza” restituiscono proprio questo.
“Henry Cartier-Bresson, senza neanche averlo come proponimento, – ha scritto Marco Neirotti occupandosi della mostra su ‘La Stampa’ – colse in un’unica sintesi la foto d’arte, il fotogiornalismo e le immagini scattate per un’indagine giudiziaria. E può anche capitare che le prime due forniscano materiale all’altra e viceversa. Suggestioni, precisione e causalità della scena del crimine – continua Neirotti – sono attimi di una narrazione che pretende un prima e un dopo”.
Dunque, è livello su livello, prova dopo prova, che si costruisce e ricostruisce la verità.