Un “whistleblower” da cui parte la fuga di notizie, milioni di file da spulciare e da gestire, la condivisione, centinaia di persone al lavoro per un anno, l’utilizzo di un sistema a prova di hacker. Così sono nati i “Panama Papers”, da cui il nome dell’inchiesta su società offshore e grandi flussi di denaro attraverso il sistema finanziario globale che sta facendo tremare leader e vip di mezzo mondo.
Un’inchiesta che segna una vera e propria svolta nel giornalismo investigativo e nel modo di comunicare la notizia grazie al lavoro messo in campo dall’International Consortium of Investigative Journalists (Icij) e da ben 378 reporter di diversi Paesi coinvolti. Impatto mondiale e portata dei contenuti faranno sì che i Panama Papers resteranno nell’immaginario collettivo dell’informazione così come “Wikileaks” e scandalo Nsa pochi anni fa. Capire come si costruisce un’impresa del genere equivale a comprendere tutte le potenzialità delle nuove tecnologie al servizio del giornalismo.
Tutto è partito da un informatore, da un whistleblower (ovvero una “gola profonda”), che lo scorso anno ha recapitato al quotidiano tedesco “Suddeutsche Zeitung” 11,5 milioni di file riguardanti lo studio legale “Mossack Fonseca”, con base a Panama City. Il quotidiano ha messo in comune i file con gli altri giornali del consorzio.
“Il materiale rilasciato è strutturato come segue: – ha spiegato il team investigativo del quotidiano – Mossack Fonseca ha creato una cartella per ogni azienda fantasma. Ciascuna di queste cartelle contiene email, contratti, trascrizioni e documenti scansionati. In alcuni casi, si tratta di diverse migliaia di pagine di documentazione. In primo luogo, i dati sono stati indicizzati sistematicamente, così da rendere possibile la ricerca in questo mare di informazioni. Per questo, Süddeutsche Zeitung ha usato ‘Nuix’, lo stesso programma sfruttato dagli investigatori internazionali. Süddeutsche Zeitung e l’Icij hanno caricato milioni di documenti su computer ad alte prestazioni. Hanno applicato un sistema di riconoscimento ottico dei caratteri (Ocr) per trasformare gli scritti in file leggibili dai calcolatori e facilmente accessibili. Questo procasso ha trasformato le immagini – come carte d’identità e contratti firmati – in testo su cui era possibile fare una ricerca. È stato un passo importante: ha permesso ai giornalisti di setacciare più informazioni possibili dai documenti, usando un’interfaccia di ricerca simile a quella di Google”.
La più grande fuga di notizie della storia della finanza internazionale ha spalancato le porte di una macchina da sempre circondata di riservatezza e mistero. Ma occorrono tecnologie informatiche adeguate e know how di software per gestire materiale delicato e penetrare negli strati più reconditi dei 2,6 terabyte di materiale. “Viene creato un sistema informatico per la gestione delle informazioni. – ha spiegato Leo Sisti su ‘L’Espresso’ che ha l’esclusiva per l’Italia – Un sistema a prova di hacker, nome in codice ‘Promethus’, l’eroe greco che rubava il fuoco agli dei per darlo gli uomini e per questo punito da Zeus: simboleggia la ribellione. Occorre una password speciale per entrare nel database che custodisce i nomi di centinaia di migliaia di clienti celati all’ombra delle offshore. E tenere impegnato il computer. Se lo si lascia troppo in ‘sonno’, si deve ricliccare la password. La ‘piazza virtuale’, dove i giornalisti si aggiornano – ha continuato Sisti – su come interpretare file complessi nel mare di 2,6 terabyte (chi sono gli azionisti? chi i beneficiari delle offshore? e così via) è il forum, anche questo protetto da password. Si fanno domande, si esprimono dubbi, si ricevono risposte e chiarimenti dagli esperti”.
Il modello collaborativo e internazionale e la tecnologia utilizzati sono destinati a fare storia nel settore e a fare da apripista a ciò che rappresenterà il giornalismo investigativo nel prossimo futuro.