di SALVATORE IACONESI

   

È possibile leggere il “fenomeno” WikiLeaks su più livelli.
Se, da un lato, è molto interessante assaporare il gesto liberatorio della potenza della disclosure, della trasparenza, della pubblicazione libera e incondizionata come gesto di libertà di espressione e di rivendicazione dei propri diritti e della possibilità di affermare la propria visione sul mondo, dall’altro lato è interessante vestire i panni degli investigatori e cercare di comprendere alcune altre dimensioni attivate da operazioni di questo genere.
È importante iniziare dal sottolineare gli aspetti positivi.
Se ci si astrae per un secondo (salvo farci ritorno tra un attimo) dalle dimensioni ideologiche e del “gossip globale” – quello per cui è interessante sapere particolari così frivoli delle dinamiche della politica globale, sia dal punto di vista del feticismo visuale che del voyeurismo comunicazionale -, è possibile affermare che fenomeni come WikiLeaks sono incredibilmente positivi, perché affermano una dimensione possibilistica.
È possibile operare sull’informazione strategica a livello globale con una potenza incredibile: le tecnologie e le tecniche necessarie sono accessibili, disponibili ed efficaci, a patto di organizzarle in maniera tattica e secondo una visione nativamente globale e fondata in maniera radicale su un atteggiamento che è a cavallo dell’hacking, del marketing più illuminato, dell’attivismo e dell’arte.
Questo fatto è indipendente dall’entità e quantità delle informazioni pubblicate, dall’identità e vita privata delle persone dietro WikiLeaks, dalle tesi complottiste, dal fatto che gli attivisti di WL siano della CIA, del Mossad o dei ricchi figli di papà, da tutto: azioni come quelle di WikiLeaks aprono dimensioni di possibilità e di opportunità – tecniche e di immaginario – che hanno un valore e un potere assai elevato e che sono in grado di stimolare quei cambi di atteggiamento che, nella contemporaneità, sono forse il più potente mezzo di rivendicazione sociale e politica che l’umanità ha a disposizione.
C’è da dire, oltretutto, che WikiLeaks è un caso eclatante di una metodologia operativa che è istanziata costantemente da molti soggetti, sia di stampo attivista che di tipo più “classico” e/o istituzionale. Sono infatti moltissimi i casi in cui diverse tipologie di soggetti avviano campagne globali di disclosure che sono state in grado di sovvertire i meccanismi del potere autoritario e dell’opacità. Molteplici e dei tipi più differenti, dalle campagne di giornali e gruppi di attivisti anti-corporazioni, fino alle azioni di culture jamming più potenti, fino agli stessi Governi che, pilotando i meccanismi dell’informazione e della controinformazione hanno più volte cambiato le direzioni della storia e dell’opinione pubblica.
WikiLeaks è, in qualche modo, differente per alcuni motivi, primo tra tutti per l’aver ragionato non solo sulle metodologie della Rete, ma anche per aver progettato una dimensione di mito e una scansione temporale eccezionale, creando modelli narrativi complessi e strutturati, quasi da dramma greco in tre atti, formando e suggerendo, in maniera psicoattiva e dosando le azioni per mesi, il crescere dell’attenzione e del coinvolgimento di media, persone e reti.
WikiLeaks è un fenomeno che dovrebbe interessare molte discipline della comunicazione, delle scienze cognitive e delle pratiche attiviste.
Ci sono, però, altre dimensioni del fenomeno che sono altrettanto interessanti, ma che vengono analizzate e discusse solo di rado.
Queste dimensioni possono essere sintetizzate, dal mio punto di vista, come:

  • la contrattazione del reale
  • la spettacolarizzazione, l’assuefazione e il conseguente distacco dalle politiche
  • la strumentalizzazione
  • l’emergere di paradisi informazionali

 

Iniziamo con ordine.
Abbiamo oramai abbandonato l’idea della possibilità della definizione univoca del reale. Se non fossero bastati gli interventi dei filosofi del Novecento, le visioni mistiche del passato e la televisione, la Rete ha oramai reso completamente banale questa idea: le reti digitali, sia direttamente on line che attraverso le possibilità di stratificare infinite informazioni e interpretazioni su qualsiasi luogo, oggetto, corpo, concetto o transazione, hanno completamente annullato la possibilità anche solo di concepire la “realtà” come interpretazione univoca.
WikiLeaks porta questa possibilità nelle stanze del potere.
In questo senso, infatti, il termine “wiki” è completamente fuorviante.
WikiLeaks è, per definizione ed ammissione dei suoi stessi partecipanti, quanto di più opaco e meno partecipativo possa esistere. Il rassicurante pulsante “submit information” in cima alla pagina web del sito rappresenta una minima parte delle attività dell’organizzazione, e oltretutto la meno strategica.
Una analisi anche poco approfondita, ma realistica, sulle metodologie in base alle quali una organizzazione come WikiLeaks possa funzionare, porterà alla luce molti livelli di gerarchia e di progressiva opacità.  Le attività di WikiLeaks si organizzano secondo questo organigramma caotico e non trasparente.
È possibile immaginare in maniera sostanzialmente lineare come sia avvenuto l’approvvigionamento dei documenti alla base delle ultime pubblicazioni di informazioni.
In questo scenario alcuni soggetti, presenti nelle organizzazioni istituzionali e dotati di accessi alle informazioni in questione, creano una strategia. Una strategia che è inserita nella loro strategia personale (di individui o organizzazioni), globale o locale che essa sia.
Questi soggetti inseriscono all’interno del loro progetto la possibilità di utilizzare “WikiLeaks” come meccanismo di attuazione.
In alcuni giorni (tanto serve per entrare in contatto con qualche elemento di sufficiente rilevanza all’interno di WikiLeaks) i contatti sono avviati e si inizia la discussione delle migliori metodologie di trasferimento delle informazioni.
Queste verranno trasferite, con tutta probabilità e in accordo con quanto raccontato più volte da membri di WikiLeaks, secondo canali sicuri fondati solo in parte sulle reti digitali.
Probabilmente organizzati in pacchetti distribuiti in maniera ridondante e crittografia su diversi supporti magnetici, le informazioni vengono consegnate a WikiLeaks, per posta, a mano o usando un corriere. Usando canali differenti, vengono condivise le chiavi di cifratura.
A quel punto il gioco è fatto: WikiLeaks edita, duplica e rimodifica le informazioni, disseminandole in maniera ridondante per sicurezza in diversi luoghi del pianeta e della Rete.
Nessuno ha mai premuto il pulsante “submit” del sito, gran parte della “redazione” di WikiLeaks non ha alcuna informazione su come/quando/con chi sia avvenuto lo scambio.
La contrattazione avviene tra pochi soggetti, appartenenti ai livelli gerarchici più elevati delle due (o più) organizzazioni e tutta l’operazione è asservita alle strategie e tattiche dei soggetti coinvolti.
Non c’è, ovviamente, alcuna critica in questa descrizione: è il risultato di uno studio di fattibilità tecnica, tecnologica e metodologica. Con tutta probabilità così si svolgono i processi di disclosure di WikiLeaks.
Questo genere di processi ha, però, diversi risvolti interessanti, collegati principalmente con i due principali livelli narrativi coinvolti: la strategia e il mito.
Lo scontrarsi di questi due livelli crea un intero ecosistema di possibilità, in cui si possono creare narrative globali per ottenere un numero virtualmente infinito di risultati.
Selezionando le informazioni da pubblicare, progettandone la scansione temporale, scegliendo i soggetti politici ed economici su cui focalizzare l’attenzione, è possibile mischiare alle narrative di dettaglio (che, non a caso, sono rappresentate da gossip diplomatici e altri elementi in grado di creare una condizione di “sospensione di giudizio” in virtù dei feticci cui si aggrappano e della dimensione voyeuristica cui fanno riferimento) narrative di fondo, rumore e una serie di punti fermi che, come è pratica comune del cinema, della pubblicità e della comunicazione strategica, descrivono in maniera precisa scenari e panorami. Questo avviene in maniera fondamentalmente scientifica, e utilizza tutti gli armamentari della comunicazione, incluse le incongruenze, il falso, il montaggio, lo sfasamento temporale. Kulešov, Ėjzenštejn e Vertov non potrebbero essere più soddisfatti.
In questo scenario il reale, inteso come interpretazione unica o, quantomeno, più plausibile, cessa di esistere, sostituito da una condizione di interconnessione rizomatica di informazioni e visioni che si apre a due risultati principali: la sostanziale equivalenza di ogni interpretazione (o immaginazione) possibile, e il calo dell’attenzione e del desiderio di approfondimento, in virtù dell’enormità delle informazioni fruite, delle infinite combinazioni possibili e della polifonia interpretativa che queste  generano nella società e, soprattutto, nelle figure degli “esperti” anche di tipo non “classico”, ovvero coincidenti in qualche modo con il concetto di “influencers” che emerge dalle teorie sociali e cognitive che studiano le reti digitali.
Il risultato è noto ed abbastanza dirompente: cala il livello di attenzione e subentra il livello di spettacolarizzazione che, a seguire, crea un progressivo distacco dalle informazioni, dagli ecosistemi politici e sociali che queste descrivono, lasciando in uno stato di stupore ripetitivo, ricombinante ed assuefatto tipico della pornografia. Non c’è mai “soddisfazione” o “attivazione”: esiste solo la dimensione della jouissance Lacaniana, una sorta di stato di masturbazione informazionale, che trova significato nella mera ripetizione e mai nella soddisfazione.
Questa condizione di continuo stupore assuefatto è anche fertile humus per la strumentalizzazione. Abbiamo chiare in mente le immagini dell’11 Settembre 2001, e della strategia di controllo attuata sulla base di quegli avvenimenti.
Senza, come al solito, cedere al complottismo o alla paranoia, non v’è dubbio che eventi così eclatanti diventino in maniera abbastanza lineare la scusa per l’attuazione di politiche di controllo e di limitazione di libertà, ad opera di forme autoritarie tanto abituate, oramai, a giocare diversi ruoli sui molti piani dell’informazione e della controinformazione.
Ma tra tutti gli elementi fin qui citati, ve n’è uno che non viene menzionato quasi mai, e che può essere suggerito come interessante spunto di riflessione per l’analisi possibilistica degli scenari del prossimo futuro.
Le azioni ed i processi collegati alla vita e agli exploit di WikiLeaks assomigliano in più di un modo all’agire di una certa parte del mercato finanziario globale.
Proprio quel mercato che, virtualizzata completamente l’economia, fonda sull’informazione la sua chiave di volta. La possibilità di avere vantaggi competitivi in termini di disponibilità di informazione è la chiave per il successo nei mercati globali della speculazione finanziaria: anche la crisi più grave può generare enormi utili per chi sia in possesso delle informazioni con un adeguato anticipo.
Questo elemento, unito alle tendenze, in varie parti del mondo, inclusa l’Islanda, con cui si immaginano e si progettano diverse forme di “porto franco informazionale”, suggeriscono scenari interessanti.
Sembrerebbe infatti non troppo remoto o inattuabile un panorama globale in cui l’informazione si sostituisse completamente al denaro, per quanto virtualizzato. E, anzi, probabilmente, a qualche livello “meta”, ciò è già successo.
Le dinamiche descritte dall’operare di Wikileaks e di soggetti nazionali quali l’Islanda e tanti porti franchi del mondo, suggeriscono la possibilità di emersione di soggetti del tutto particolari.
Luoghi dell’opacità e della contrattazione non più delle risorse economiche reali o virtuali, ma di informazione. Luoghi fisici e sulla Rete, localizzati o disseminati in varie parti del mondo grazie a cloud incredibilmente protette di server crittografati ed anonimi, in cui attuare le proprie strategie globali con la moneta-informazione, cambiando ad incredibile velocità le sorti di nazioni, mercati e popolazioni.
Paradisi informazionali dopo i paradisi fiscali? 

 

Salvatore Iaconesi
salvatore.iaconesi@artisopensource.net
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