La ripresa economica è iniziata, la disoccupazione è in calo e la produzione del greggio aumenta. Ma la benzina rimane comunque troppo cara. Su questo fanno leva, i repubblicani per mettere in difficoltà il Presidente

A San Francisco ho avvistato dei distributori con prezzi alla pompa di 4,85 dollari il gallone. Secondo la saggezza convenzionale 4 dollari a gallone sono una “soglia politica”, sopra la quale il caro-benzina balza in cima alle preoccupazioni degli elettori americani, diventa determinante nella percezione dello stato dell’economia. E non solo in America. Dalla rielezione di Barack Obama a novembre, fino alla crisi economica europea; dalla sorte di Vladimir Putin, agli equilibri geostrategici in Medio Oriente, tanta parte del nostro futuro è legata al petrolio. La storia si ripete, con una regolarità impressionante. Holman Jenkins sul Wall Street Journal ha calcolato che l’attuale prezzo alla pompa negli Stati Uniti, in termini reali e cioè depurato dell’inflazione, è un “picco” raggiunto poche volte nel passato, e sempre in circostanze eccezionali. Un prezzo simile – in dollari dell’epoca – fu toccato al termine della prima guerra mondiale per il boom dei consumi militari e il blocco di certe rotte di approvvigionamento; poi ancora durante il secondo shock energetico del 1979 in seguito alla rivoluzione iraniana; infine nei momenti di maggiore incertezza della Primavera araba l’anno scorso quando la rivolta in Libia bloccò un’importante fonte di greggio per l’Occidente. Ora ci risiamo, con l’aggravante dei “tamburi di guerra” che riecheggiano sull’Iran. Il punto debole. La destra negli Stati Uniti già intravede una chance. Proprio mentre la ripresa economica è iniziata, e il calo della disoccupazione provoca una risalita di Obama nei sondaggi, i repubblicani accarezzano la speranza di uno shock petrolifero che faccia deragliare insieme la crescita e il presidente. Uno spot televisivo di pubblicità politica pagato dal Republican National Committee è centrato sulla traiettoria della benzina, da 1,85 dollari quando Obama arrivò alla Casa Bianca nel gennaio 2009, fino al raddoppio di oggi. Il presidente ammette che questo è il suo nuovo tallone di Achille: “Ogni giorno – ha dichiarato Obama – ricevo lettere di cittadini che si lamentano per il caro-benzina. Alcuni mi dicono che se il costo del pieno va ancora più su, non avranno più i mezzi per andare al lavoro”.
È quasi una nemesi storica: oggi i suoi avversari ricordano che l’ascesa di Obama come candidato democratico nella primavera del 2008 coincise con un altro periodo d’iper-inflazione del petrolio (e di tutte le materie prime), cui l’allora senatore dell’Illinois reagì proponendo la Green Economy come uno degli assi portanti della sua piattaforma elettorale. Nel fascino che Obama sprigionò quattro anni fa, scatenando una massiccia partecipazione politica tra le nuove generazioni, un ruolo importante lo ebbe la sua immagine “verde”. Eppure, come costata il Washington Post, “da allora il prezzo del greggio prima è precipitato con la recessione, poi è risalito con la ripresa, e rieccoci daccapo: l’America importa sempre circa la metà del suo consumo di petrolio”. Una dipendenza che per altri è una manna. Putin, per esempio: con il greggio sopra 118 dollari al barile per il governo russo è automatico il pareggio di bilancio. Obama è costretto a un’ammissione d’impotenza: “Qui in America abbiamo solo il 2 percento delle riserve mondiali di petrolio, mentre ne consumiamo il 20 percento”. Di fronte a chi gli chiede rimedi immediati, il presidente colloca lo shock energetico in un contesto di cambiamenti strutturali: “Nel lungo periodo – dice Obama – la ragione principale per cui i prezzi continueranno a salire è la domanda crescente in paesi come la Cina, l’India e il Brasile. Negli ultimi cinque anni il numero di vetture che circolano sulle strade della Cina si è triplicato. In un solo anno, si sono aggiunti 10 milioni di auto al parco circolante in Cina. Dal momento che gli indiani e i brasiliani aspirano anche loro a comprarsi un’auto come noi, questi numeri andranno sempre più su”.

L’Arabia Saudita in casa? Tuttavia la crisi immediata del caro-benzina non deve occultare un’evoluzione di più lungo periodo verso un traguardo che l’America inseguiva da 40 anni: non dipendere più dagli sceicchi arabi per il suo fabbisogno energetico. Quel flusso di pagamenti si sta riducendo. Le conseguenze potenziali sono enormi, sugli equilibri ecologici e su quelli geostrategici: se continua così, l’America non avrà più bisogno di schierare la Quinta Flotta nel Golfo Persico? La sua Arabia Saudita ce l’avrà in casa. Un traguardo inaudito, che questa nazione inseguiva invano dai tempi del presidente Richard Nixon e del primo shock energetico: la guerra del Kippur (1973).
La crescente autonomia energetica degli Stati Uniti è il frutto di tre tendenze, ben distinte ma convergenti nei loro effetti. Anzitutto, un poderoso aumento della produzione domestica: di petrolio e soprattutto gas naturale, grazie a nuove tecnologie e alla redditività creata dagli alti prezzi mondiali. La stessa Casa Bianca oggi ci fornisce queste cifre: “Dal 2008 la produzione di petrolio negli Stati Uniti è aumentata ogni anno. Nel 2011 l’estrazione di greggio americano ha raggiunto il massimo degli ultimi otto anni, 110.000 barili al giorno”. Secondo: i notevoli progressi nell’efficienza energetica. Terzo: lo sviluppo delle fonti alternative come eolico e solare. È grazie alla combinazione di questi cambiamenti che l’America ha ridotto le sue importazioni di carburanti liquidi dal 60 percento del 2005 al 45 percento dell’anno scorso. La sua quota d’importazioni dai paesi OPEC è calata del 20 percento in soli tre anni. Per la prima volta dai tempi del presidente Harry Truman (cioè nell’immediato dopoguerra) gli Stati Uniti tornano a essere un esportatore netto di derivati del petrolio. Le riserve USA di gas naturale sono traboccanti, al punto che le aziende del settore vogliono esportare gas in Europa e in Asia. La produzione di petrolio dai giacimenti nazionali è balzata da 4,95 milioni di barili al giorno nel 2005 ai 5,7 barili attuali. Alcune proiezioni vedono un’estrazione di 10 milioni di barili al giorno in futuro: un livello che secondo il New York Times metterebbe gli Stati Uniti “nello stesso rango di capacità dell’Arabia saudita”. Tutto ciò ha anche dei costi per l’ambiente: in alcune aree dallo Utah al Wyoming l’aumento dell’estrazione si accompagna a un evidente inquinamento atmosferico.
Nulla Escluso. Gli ambientalisti contestano anche il ricorso alla tecnica del “fracking” (pompaggio di acqua e sabbia ad alta pressione per estrarre petrolio e gas dalle rocce) per le sue conseguenze sulle riserve idriche. I repubblicani, al contrario, attaccano Obama per non aver concesso permessi di trivellazione in vaste aree costiere. Lo accusano per il veto federale contro la costruzione di una tratta del grande oleodotto Xl Keystone con il Canada. Nella realtà questo presidente ha moderato i propositi ambientalisti di quand’era candidato nel 2008. “L’estrazione di gas e petrolio americano è aumentata costantemente sotto la mia presidenza”, ha ricordato Obama durante una recente visita nell’Oklahoma, uno degli Stati produttori. “La mia politica è: Nulla Escluso”, ama ripetere il presidente. In effetti ha spinto su tutti i tasti. Sfruttando la sua influenza sulle case automobilistiche (due delle quali sono state salvate con i fondi federali: General Motors e Chrysler) Obama ha imposto un notevole miglioramento dell’efficienza: motori che consumano molto meno. L’effetto combinato della recessione e dei nuovi standard anti-inquinamento, ha fatto sì che gli americani comprino meno Suv: dal 18 percento sono scesi al 7 percento delle vendite complessive di vetture. La California, che fa da battistrada per le nuove politiche, ha imposto per i mezzi pubblici motori ibridi o a gas naturale. L’impegno di Obama per le rinnovabili non è calato: è appena andato a visitare Copper Mountain Solar 1, la più grande centrale fotovoltaica del paese, che nel Nevada fornisce energia a 17.000 abitazioni. L’occupazione nella Green Economy è cresciuta fino a 3,1 milioni di posti di lavoro, un record storico.

Federico Rampini è inviato del quotidiano La Repubblica a New York. È stato corrispondente da San Francisco e Pechino. Ha pubblicato numerosi libri. L’ultimo in ordine di tempo: “Alla mia sinistra”, Mondadori, 2011.

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