Dopo il voto USA, un’analisi tagliente della campagna elettorale
I candidati hanno dato per assodato l’obiettivo dell’indipendenza energetica senza preoccuparsi più di tanto di definire le strategie politiche da implementare per raggiungerlo. In particolare sono state ignorate sfide che interessano tutti i cittadini americani
Negli ultimi trent’anni, nessun’altra questione strategica ha dominato la scena politica degli Stati Uniti più dell’energia: dove reperirla, qual è la migliore, come conservarla, quanto pagarla. Eppure, è trascorso un intero mandato elettorale di quattro anni del Presidente degli Stati Uniti e queste domande sono state pressoché ignorate. In tutta onestà, sia il Presidente Obama che il Governatore Romney non si sono soffermati molto su quella che viene tradizionalmente chiamata, con un eufemismo, “indipendenza energetica”. Questo obiettivo è stato dato per scontato e i candidati non si sono preoccupati più di tanto di definire le strategie politiche da implementare per raggiungerlo. In particolare sono state ignorate sfide che interessano tutti i cittadini americani, come la conservazione dell’energia o il tentativo di mettere fine a uno sfruttamento energetico inefficiente e dispendioso nel settore dei trasporti, soprattutto delle auto, e delle utility. Il Presidente Obama ha inserito spesso nei suoi discorsi una sequela di misure necessarie: produzione nazionale di petrolio e gas, “carbone pulito”, fonti energetiche alternative e rinnovabili, come quella eolica e solare. Un elenco che somiglia più a una lista della spesa che a una politica energetica coerente da adottare a lungo termine a livello nazionale. Da parte sua, il Governatore Romney si è concentrato soprattutto su un processo di deregulation delle attività di esplorazione per petrolio e gas on-shore e off-shore, prefigurando probabilmente un ritorno a quella sorta di disattenzione del governo che ha consentito alla Deepwater Horizon di inondare di petrolio il Golfo del Messico. In uno scenario di negligenza generale che circonda la politica energetica, fa eccezione lo sforzo (per altro coronato di successo) dell’amministrazione Obama di raddoppiare gli standard di efficienza dei veicoli, che raggiungeranno entro il 2025 una media per flotta di 54,5 miglia al gallone.
Le vecchie ricette di Democratici e Repubblicani. I motivi alla base di questa situazione sono molteplici: alcuni hanno a che vedere con la natura stessa della politica americana, che deve fare i conti con un divario nella gestione dell’energia. Sono trascorsi ormai 38 anni dal primo embargo petrolifero dell’OPEC, ma le autorità statunitensi non sono ancora riuscite a trovare un accordo sul fronte della politica energetica. Considerate le filosofie che animano i due principali partiti politici, è probabile che i Democratici si dichiarino a favore della conservazione dell’energia e di fonti alternative e rinnovabili. I più audaci hanno proposto anche una tassa sulle emissioni di anidride carbonica per stimolare un passaggio graduale ma su ampia scala dai combustibili fossili a energie carbon-free. Questo approccio ha come finalità sia il raggiungimento di un livello di indipendenza dalle forniture di petrolio provenienti da un Golfo Persico instabile, sia l’impegno ad affrontare le preoccupazioni sul riscaldamento globale. Da parte loro, i Repubblicani sostengono un mercato energetico privo di regolamentazioni governative, comprese quelle sull’ambiente, dove più che offrire sussidi per fonti energetiche alternative e rinnovabili, si dia libero accesso ai terreni pubblici degli Stati Uniti Occidentali per incrementare le attività di esplorazione alla ricerca di petrolio e gas. A differenza dei Democratici, i Repubblicani si schierano anche a favore di una ripresa della produzione di energia nucleare. Nulla di nuovo, dunque, per chi ormai conosce a fondo questa discussione tutt’altro che proficua sulla politica energetica statunitense. Sono più di trent’anni che i due approcci politici generali alimentano questa specie di “dibattito” nel Paese. E non si può dire che la campagna presidenziale del 2012 abbia cambiato le cose né che abbia fatto salire il consenso pubblico a un livello almeno misurabile. La peculiarità della scena politica americana, così complicata agli occhi del resto del mondo, spiega in parte questa mancanza di progressi. Le campagne politiche, soprattutto quelle presidenziali, sono dominate da due fattori: soldi e media. Il denaro speso per queste campagne ha ormai raggiunto livelli epici ed è destinato in gran parte al pagamento di mass media o pubblicità sulle varie reti televisive e radiofoniche. Non importa se queste reti sono autorizzate dai cittadini americani, attraverso il governo, a operare su uno spettro di onde di pubblica proprietà.
La “compressione mediatica” delle campagne elettorali. Considerata la portata colossale di queste spese, si potrebbe pensare che i partiti e i candidati acquistino spazi di trasmissione sufficienti a spiegare le loro misure politiche nazionali in un’altrettanto ampia gamma di campi, compresa l’energia. E invece no: per lanciare i loro messaggi politici, i candidati e i partiti acquistano a prezzi esorbitanti “spot” di 30 o 60 secondi e pubblicità a sfondo più o meno commerciale. Ciò si traduce inevitabilmente in quella che potrebbe essere definita una “compressione mediatica”, ovvero il tentativo di affrontare questioni complesse o sfaccettate in pochi istanti e brevi momenti di attenzione. Il risultato più plausibile è una retorica semplicistica, racchiusa in slogan chiamati comunemente “sound bites”. Ecco quindi che una campagna presidenziale degli Stati Uniti che dovrebbe, nella migliore delle ipotesi, approfondire e illustrare, si riduce invece a un messaggio telegrafico, costoso e per di più inefficace, ben lungi dall’informare gli elettori o sviluppare nuove filosofie di pensiero. Un cinico potrebbe rispondere “È politica, cosa ti aspettavi?”. Quando ne va del futuro di una grande potenza industriale, quasi completamente dipendente dai rifornimenti energetici per alimentare il proprio motore economico, bisognerebbe aspettarsi molto di più e non si tratta di una mera speranza idealistica.
È necessario un approccio razionale.
Ad esempio: perché non attribuire all’obiettivo elusivo della sicurezza energetica una definizione più precisa, ovvero essere sufficientemente indipendenti da fonti energetiche estere potenzialmente inaffidabili, in modo tale che l’intera nazione non debba continuamente combattere guerre per ottenere l’energia di cui necessita? Oppure: perché non proporre un programma di trasporto pubblico del XXI secolo, capace di liberare le principali aree urbane dalla profonda dipendenza dalle automobili per gli spostamenti quotidiani? O ancora: perché non proporre una nuova generazione di reattori nucleari standardizzati da 500 megawatt che siano sicuri, riproducibili e basati su tecnologie avanzate per riciclare il più possibile i combustibili nucleari? E ancora: perché non creare infrastrutture pubbliche, dall’Aeroporto Internazionale di Denver a decine di stadi e centri sportivi, totalmente autosufficienti e sostenibili dal punto di vista energetico? La questione non è ideare una politica energetica, ma chiedersi – e spiegare agli osservatori confusi – perché il sistema politico statunitense non sia in grado di sfruttare in modo efficiente le campagne politiche come strumenti di istruzione pubblica, provocazione, dibattito e confronto costruttivo. Perché proprio per i motivi citati, questo sistema politico non intende trasformarsi in un forum di riforme e scelte pubbliche, né tantomeno i candidati nazionali sono disposti a utilizzare le loro campagne per stimolare i cambiamenti e dar vita a politiche importanti, come quella energetica, lasciando invece la sfida aperta per il processo legislativo. In un mondo ideale, questo atteggiamento sarebbe accettabile. Ma gli studenti di politica americana sanno anche che il Congresso è ideologicamente polarizzato e quindi incapace, quanto meno al momento, di risolvere aspri confronti politici. La triste verità è che nemmeno la campagna presidenziale del 2012 ha difeso la causa di una politica energetica coerente, nazionale e a lungo termine. Se è vero che tutte le nazioni più o meno progredite cercano un approccio razionale all’energia, gli Stati Uniti appaiono piuttosto riluttanti. Almeno per ora.
In collaborazione con Oil