di MARIA PIA ROSSIGNAUD –
Il mondo è una rete, dunque lo sviluppo passa inevitabilmente attraverso le grandi infrastrutture dedicate alle telecomunicazioni. La sua visione, le sue priorità …
Anche se il nostro vocabolario si è arricchito di componenti eteree (in primo luogo cloud computing) sotto la spinta della digitalizzazione e della conseguente virtualità, non possiamo staccare i piedi da terra e dimenticarci che tutti i servizi sono attivati, transitano e sono erogati tramite infrastrutture. Grandi datacenter, scavi urbani, cavi sottomarini, devices più o meno modaioli e il famigerato ultimo miglio sia esso di rame o di fibra ottica, ci riconducono alla fisicità del mondo della rete.
Le grandi infrastrutture rimangono condicio sine qua non per lo sviluppo delle Ict; piattaforme fondamentali soprattutto in un Paese quale l’Italia che vuole basare la sua competitività sul capitale umano ma che è afflitto da nanismo delle imprese, frammentazione su un territorio orograficamente difficile e divario Nord-Sud. In particolare la rete permette anche alle aziende più piccole di crescere accedendo a servizi non necessariamente disponibili in-house e a mercati per i quali l’isolamento geografico – nella provincia o nel Meridione – non è più un vincolo al farsi conoscere.
La mia priorità, coerentemente con la mission dell’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni è indubbiamente il potenziamento della rete di accesso. Potenziamento inteso sia come capacità di traffico, sia come capillarità. Se per il mobile possiamo ritenere che il mercato si stia sviluppando con un assetto sostanzialmente concorrenziale e quindi funzionale alle esigenze del consumatore, per le linee fisse non si può prescindere dall’eredità tecnologica, soprattutto nelle (molte) aree lontane dalle grandi città scarsamente attrattive dal punto di vista commerciale.
Non ho impugnato ideologicamente né la bandiera del partito pro-rame né quella del partito pro-fibra. Ma nel mio ruolo vedo con favore il dialogo attorno la creazione di una società che possa coagulare le risorse di soci industriali e soci finanziari con l’obiettivo di creare un asset imprescindibile che deve essere realizzato con risorse private in un quadro regolamentare prevedibile.
Il nostro motto è siamo nell’era della Grande Mutazione, dove la tecnologia cambia non solo il modo di comunicare ma la vita dell’uomo, come affrontare le nuove prospettive e costruire una nuova e non più procrastinabile convivenza civile?
La grande mutazione è una marcia silenziosa ma costante. Siamo ancora nel pieno di un’era che ogni giorno ci riserva delle sorprese. E la tecnologia ad oggi disponibile pone già degli interrogativi non indifferenti in quanto gli unici limiti che l’homo digitalis si pone, sono quelli del lecito che, nelle società liberali, diventano quelli del legale.
La capacità di raccogliere dati e trasformarli in informazioni è tale per cui è possibile eliminare molti costi di transazione soprattutto determinati dalle asimmetrie informative. I nostri acquisti, i nostri incontri, le nostre diagnosi potranno essere più efficaci o più efficienti grazie a servizi tailor-made.
Da un punto di vista puramente speculativo, un matching perfetto tra domanda e offerta sarebbe la tomba della serendipità che fa della causalità una ricchezza per la nostra quotidianità.
Da un punto di vista più pragmatico, dobbiamo capire quali dati siamo disposti a condividere, con chi, per quanto tempo e a quali condizioni. E soprattutto, se e quale ruolo deve avere un soggetto pubblico sia nella sua veste di legislatore che nella sua veste di autorità garante.
Come al solito ci troviamo davanti ad un trade-off dove i due estremi – cyber anarchia o luddismo anti Ict – non sono opzioni perseguibili come modelli di convivenza civile dove questo attributo non ha un mero ruolo di specificazione soggettiva (rapporti tra cittadini) ma qualitativa.
La qualità della convivenza richiede delle regole che, a fronte di un minimo sacrificio della libertà individuale, permettono di vivere in una società in cui gli equilibri non siano favorevoli ai soggetti dominanti.
Gli editori si alleano contro gli over the top, non pensa che le telecomunicazioni dovrebbero unirsi a loro?
Alle alleanze contro qualcosa preferisco le alleanze per qualcosa. Detto questo le telecomunicazioni dovrebbero unirsi a chi genera traffico effettivo oppure, secondo i piani tariffari più diffusi, quelli flat, traffico atteso. Gli operatori del settore delle telecomunicazioni non dovrebbero auspicare soluzioni che siano ciecamente restrittive a favore quindi di una blindatura del diritto d’autore.
Lo stesso auspicio ritengo alberghi nei cuori degli editori e degli over the top i quali hanno una chance per giocare partite che garantiscono risultati win win. Gli over the top hanno bisogno di contenuti editoriali e gli editori, soprattutto quelli meno visibili, hanno bisogno di una finestra sulla rete oltre il classico sito internet istituzionale, considerando i trend speculari dei ricavi pubblicitari tradizionali e di quelli del web, dove quelli con il segno positivo sono questi ultimi.
Ma critiche nei confronti di Google News, per citare il caso piu’ noto, sono emerse in Italia e piu’ recentemente in Germania, in Brasile e in Francia. Nell’attesa del quadro giuridico-fiscale che si andra’ delineando, gli editori potrebbero sfruttare maggiormente le opportunità offerte dal web in generale e dal sistema di aggregazione delle news in particolare. Basterebbe cambiare modello di business. Per esempio utilizzare Google News come vetrina per frammenti di informazione che incentivano l’utente a cliccare per farlo atterrare sulla pagina dell’editore che contiene l’informazione, arricchendo questa pagina per renderla un miniportale tematico sulla quale far convergere più pubblicità rispetto a quanta ne può contenere una normale pagina.
Tracciabilità, un mondo che può essere paragonato al farwest, non ci sono regole. Siamo tutti vittime più o meno consapevoli di un mercato invisibile. McLuhan diceva che nell’era elettrica metà della gente avrebbe passato il tempo a spiare l’altra metà, ci siamo?
Mi permetto di affermare che siamo oltre la previsione di McLuhan: il livello della tecnologia è tale per cui tutti possono spiare tutti. Ma di questo dovremmo esserne consapevoli in quanto siamo noi che creiamo gli account, che carichiamo fotografie, che guardiamo video e che scriviamo i nostri pensieri. Nel villaggio globale (come del resto in un paesino della provincia) non abbiamo più la maschera che ci garantisce l’anonimato come in una grande città.
Se l’affermazione della nostra identità, dotata delle tracce che lasciamo, non sarà garanzia di avere quei 15 minuti di fama previsti da Andy Warhol (quando la fama significava andare in onda sul principe dei mass media, la televisione), potremmo comunque occupare uno spazio dell’assottigliata long tail che archivia tutte le nostre informazioni magari utili ed apprezzate da una cerchia di “amici” nella semantica affermatasi con la diffusione del social networking.
Bisogna tuttavia ricordare che questi servizi sono nella quasi totalità dei casi gratuiti. Poiché vale sempre la regola per cui non esistono pasti gratis, la nostra tracciabilità è il “prezzo” non monetario che paghiamo per i servizi che ci vengono offerti e che sottoscriviamo ogni volta che clicchiamo dando il consenso a utilizzare i nostri dati senza mai leggere l’informativa.
Ovviamente deve vigere la simmetria: così come si fornisce il proprio consenso al trattamento dei dati che si generano, con la stessa facilità si deve avere la possibilità di negarlo, in qualsiasi momento, cancellando tutto ciò che è stato creato e uscendo dal mondo della rete per tornare anonimi come un turista al centro di Times Square. Il diritto all’oblio dovrà essere un diritto fondamentale della prossima generazione di diritti. Un diritto fondamentale della persona digitale.
Maria Pia Rossignaud
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