Roma. Professor Pizzetti, lei ha di recente dichiarato: “I Social network vanno usati con la consapevolezza che non si parla solo tra amici, che si danno informazioni a una platea indefinita, che è quella della rete, e soprattutto che queste possono restare on line per un tempo indefinito”. Un avvertimento che rischia però di rimanere inascoltato: molti degli iscritti a Facebook sono alla loro prima esperienza digitale. Non crede che prima di elevare il livello tecnologico di un mezzo di comunicazione sia prioritario migliorare le competenze di coloro che sono destinati ad utilizzarlo?
Sul Social network non c’è dubbio che ci sia la necessità di elevare le competenze culturali: ma questa in linea generale è un’esigenza che riguarda tutti i mass-media, soprattutto quelli di carattere informatico, e tutte le persone che ne fanno uso. Del resto quella di imparare comportamenti adeguati ai nuovi bisogni e alle nuove realtà è una dinamica che l’uomo ha sempre vissuto nel passaggio da un’epoca all’altra: è da due secoli che l’umanità si trova di fronte a fenomeni di questo tipo. Problemi che si sono presentati, con le stesse difficoltà, con la stessa spaccatura generazionale, quando l’uomo ha inventato la luce elettrica, il telefono e la televisione. Quel che preoccupa è che però adesso, nella società dell’Information & Communication Technology, i fenomeni sono diventati di dimensioni rilevanti e sempre più delicati: basti pensare alla rete digitale, all’interno della quale viaggiano miriadi di dati personali.
Però con il passare del tempo le tecnologie più valide hanno sempre preso il sopravvento diventando protagoniste nel mercato e nella società. Quindi c’è solo da aspettare?
Non direi proprio che ci sia solo da aspettare. I problemi oggi sono anche di carattere morale ed etico. C’è soprattutto un grande bisogno di scrivere nuove regole. Basti pensare come in larga misura vada attualizzato, se non ripensato, il diritto. Va poi riparametrata la questione sull’etica e sulla buona educazione. E inoltre ci sono delle particolari modalità comunicative, mai riscontrate in passato, che avanzano e che in qualche modo vanno regolate: mi riferisco alla nuova punteggiatura, agli sms, alle chat, solo per fare degli esempi di più stretta attualità. Ma l’elenco è lunghissimo. Sono tutte modalità che ci obbligano a ripensare e rielaborare delle regole sino ad oggi date per buone. Ma che invece con il boom tecnologico cui abbiamo assistito negli ultimi anni vanno per forza di cose riviste.
Rimaniamo in ambiente di lavoro: da una recente ricerca sui segretari dei Comuni italiani risulterebbe che oltre la metà utilizza computer, Internet e posta elettronica esclusivamente sul posto di lavoro. Spesso anche per uso privato. Cosa potrebbero fare i datori di lavoro per debellare questa situazione senza minare la privacy dei lavoratori?
Sul luogo di lavoro sarebbe opportuno conciliare le finalità istituzionali e un moderato uso personale o privato di questi strumenti. Vale la pena ricordare che siamo in presenza di un fenomeno antico, sul quale la Cassazione si è pronunciata più volte: la finalità personale, infatti, si realizza anche attraverso l’uso del telefono e di molte altre apparecchiature aziendali. Alle quali, salvo accordi preventivi, nemmeno il datore di lavoro può accedere.
La questione è tra l’altro regolata dall’articolo 4 dello Statuto dei lavoratori, in base al quale l’uso degli impianti audiovisivi e il controllo a distanza dei lavoratori è di regola vietato. A meno che ci siano degli accordi con i rappresentanti dei lavoratori: il problema diventa quindi anche quello di instaurare delle buone relazioni sindacali.
Quindi sarebbe sufficiente un tavolo di concertazione adeguato. Ma non occorrerebbe allora introdurre nuovi organismi di controllo di tipo super partes?
È vero. A ben vedere, a seguito delle sempre più sofisticate apparecchiature di registrazione, credo sia anche necessario adottare come ulteriore forma di tutela dei lavoratori una specifica policy: prevedendo, ad esempio, un organismo di sorveglianza in grado di dare indicazioni sui tempi di conservazione dei dati sulla navigazione Internet nei computer d’azienda; ma anche su come intervenire qualora il dipendente si ammali e l’azienda abbia necessità di aprire le e-mail lavorative. Attraverso questi accessi, per forza di cose i colleghi possono infatti entrare in contatto anche con contenuti di carattere esclusivamente privato venendone così indebitamente a conoscenza.
Non si può comunque generalizzare. Molto dipende dal tipo di lavoro: se prendiamo come esempio l’ambiente ospedaliero, una cosa è utilizzare Facebook quando un lavoratore svolge il turno di notte, negli anche lunghi momenti di sospensione totale delle attività; un’altra è condurre uno smodato uso di Internet durante la giornata costellata da diversi e spesso impellenti impegni di lavoro.
Parliamo di scuola. Lei nelle scorse settimane ha ribadito che la proposta di installare delle telecamere o dei sistemi di videosorveglianza in classe durante le ore di lezione, auspicata anche dal ministro Gelmini come deterrente per prevenire gli episodi di bullismo, non la convince. Non crede però che le scuole abbiano il diritto, oltre che il dovere, di fare qualcosa per arginare certi comportamenti?
Ribadisco che sull’idea del video-controllo sono fortemente contrario. Intendiamoci, io sono docente universitario e non ho nessun problema a far registrare l’audio delle mie lezioni: all’interno di un ateneo, infatti, il servizio d’insegnamento è rivolto alla comunità e aperto a tutti costituzionalmente. Ma a scuola, dalle elementari alle superiori, l’attività è diversa perché rimane principalmente di tipo educativo: si crea un rapporto tale tra discenti e docenti che non può essere sottoposto a controllo. Basti pensare a come gli insegnanti, sapendo di essere controllati, adottino comportamenti in qualche modo ingessati e pieni di forma. Non bisogna mai dimenticare che al centro della formazione c’è sempre una dinamica di carattere pedagogico. Che necessita sempre di un rapporto naturale: non si può quindi ridurre anche la scuola ad un ambiente controllato tecnologicamente.
Passiamo ad Internet. Qualche settimana fa Google ha presentato un servizio che grazie al satellite permette di visualizzare sul cellulare l’esatto luogo dove è posizionato il suo possessore. Per le famiglie il servizio potrebbe essere un ottimo strumento per verificare, in tempo reale, i luoghi frequentati dai propri figli e nipoti. Ma in altri casi potrebbe trasformarsi in una lesione della privacy. In una sorta di ‘Grande Fratello’ legalizzato. Che ne pensa il Garante della privacy?
A mio parere si tratta di servizi che, al pari di quelli messi a disposizione da altri provider, contiene lati positivi e lati negativi. E se non si sta attenti possono essere di più i lati negativi, perché è sicuramente inquietante essere sempre segnalati a distanza. Certo, l’attivazione del servizio presentato da Google può avvenire solo con il consenso preventivo della persona. Ma è anche vero che il permesso ad essere sempre rintracciato può essere rilasciato in periodi diversi della nostra vita e in situazioni diverse. Che con il tempo cambiano e possono creare non pochi problemi a chi viene seguito a distanza. Per questo credo che un controllo del genere, di fondo, possa essere inquietante: rischiano di innescarsi delle forme sistematiche di controllo telematico.
Però ci sono anche aspetti positivi in questo tipo di servizi?
Ce ne sono, indubbiamente. Se vado in viaggio con mio figlio negli Stati Uniti potremmo avere l’interesse reciproco ad utilizzare il telefono cellulare che ci rintracci: potremmo infatti dividerci e perderci. In tal caso un servizio come quello messo a disposizione da Google permetterebbe di controllarsi a vicenda in un ambiente sconosciuto.
Il discorso allora è che bisogna evitare di rimanere prigionieri di un’offerta tecnologica di cui non siamo in grado di valutare gli effetti. Che, come detto, possono essere positivi e negativi. Il concetto è lo stesso espresso a proposito di quanto inserito su Facebook: con il cambiare delle situazioni e dei rapporti, a distanza di anni una fotografia, un commento, un giudizio possono avere un peso specifico molto diverso. Si tratta infatti di gestire modalità di comunicazione molto avanzate e che quindi necessitano di una sufficiente conoscenza e responsabilità
Sempre su questo tema è noto come le tecnologie avanzate moderne si applichino sempre più alla navigazione on line: anche per inviare pubblicità mirata sulla base di interessi e comportamenti personali. A tale scopo è in fase di sperimentazione il cosiddetto ‘geo-marketing’ che, sfruttando il controllo satellitare, è in grado di seguire spostamenti e offrire in ogni località prodotti e servizi preferiti. Come crede che si potranno difendere da questo tipo di insidie gli utenti, soprattutto i più giovani?
Su questo versante il problema è molto articolato. In ogni caso, da qualsiasi parte lo si prenda, una cosa è certa: se un sito decide di inviare della pubblicità mirata, in base agli interessi degli utenti, è bene sempre che lo si spieghi ai destinatari. Con chiarezza e dovizia di particolari. Direi che già questa è una importante forma di difesa del consumatore.
La legge su queste situazioni è molto chiara: chi riceve delle forme di promozione o semplicemente delle comunicazioni pubblicitarie deve essere prima di tutto adeguatamente avvisato. Ed è sempre obbligatorio ottenere preventivamente il consenso. Viene da sé che quando gli utenti sono giovani si tratta di cautele che andrebbero ulteriormente rafforzate.
Alessandro Giuliani
alex.giu@tin.it