Se parlare di crisi dell’informazione oggi risulta scontato, cercare di capire perché nell’arco di vent’anni il giornalismo ha perso molto del suo ascendente sulla società e come possa tornare a un ruolo di protagonista diventa sempre più complesso. Il Reuters Institute for the Study of Journalism ci prova con il suo rapporto annuale sulle “nuove frontiere del giornalismo digitale” presentato ieri presso la sede della FIEG a Roma.
La ricerca, illustrata dal prof. Nic Newman in un pomeriggio ricco di interventi, ha evidenziato in maniera chiara il declino della carta stampata, che dal 2013 ha quasi dimezzato i suoi utilizzatori (solo in Italia ha perso 34 punti percentuali) in opposizione a un raddoppio sostanziale dell’uso dei social media. In tutto il mondo l’informazione on-line è rimasta stabile e quella televisiva è decisamente calata ma non nel nostro Paese dove l’uso della tv per informarsi rimane significativo e, allo stesso tempo, le “online-news” non sono aumentate come all’estero. Un’ulteriore particolarità italiana riguarda le piattaforme usate per informarsi: se nel resto del globo Facebook ha ormai perso il suo ruolo egemone, facendo registrare un aumento consistente di WhatsApp e di Instagram, in Italia il social media di Mark Zuckerberg resiste; così come Twitter, che nello Stivale è usato più che negli USA o in Gran Bretagna. Colpisce anche che in paesi come Brasile, India o Sud Africa ormai Whatsapp sia la piattaforma privilegiata di diffusione delle informazioni (il Reuters Institute riporta percentuali intorno al 50%) e che negli stessi paesi la popolazione esprima forti preoccupazioni verso l’affidabilità delle news.
Interessanti anche i dati sull’uso dei podcast che sono diventati una nuova fetta di mercato più che consolidata grazie all’aumento della qualità dei contenuti offerti e alla varietà delle tematiche trattate. Molti oggi li usano come strumento per approfondire temi culturali o di attualità o come diversivo nel tempo libero.
Tra i vari aspetti analizzati, un dato dirimente e positivo riguarda il ritorno dell’autorevolezza. La reputazione non è più un valore ad appannaggio solo dei singoli individui ma anche dei siti d’informazione. Per questo le pagine web dei quotidiani più importanti hanno fatto registrare un significativo aumento di traffico a discapito dei siti di informazione poco attendibili o di dubbia appartenenza. In altri termini, sembra ribaltarsi il concetto secondo cui la cattiva informazione sul web faccia la parte del leone. Questo dato ha acceso la seconda parte della giornata: un tavolo di discussione moderato da Antonio Polito del Corriere della Sera a cui hanno partecipato Andrea Santagata, Chief Innovation Officer del Gruppo Mondadori, Pier Luca Santoro, Consulente del Dipartimento per l’Editoria, Sergio Splendore dell’Università degli Studi di Milano e Riccardo Terzi,EMEA Strategic Relations, News and Publishers di Google. La presenza dell’azienda americana, tra l’altro, “si inserisce in un percorso di collaborazione intrapreso insieme agli editori italiani tre anni fa volto a intervenire fattivamente per accompagnare l’evoluzione dell’informazione” come ha ricordato Fabrizio Carotti (Direttore Generale FIEG), in quanto “analizzare i cambiamenti e i progressi tecnologici è il solo modo per tentare di comprendere in che direzione si sviluppi il futuro dei media”.
“Il punto” ha sottolineato Polito, “è che il giornalismo non deve abdicare alla sua funzione di watch-dog della democrazia, non bisogna soltanto considerare il calo di introiti dei nostri editori e, quindi, la crisi di mercato che stiamo vivendo da almeno quindici anni. Ci si deve soffermare sull’importanza di un’informazione indipendente che riesca a criticare il potere laddove serve e a mantenere la sua indipendenza nonostante le pressioni sempre più forti che da più lati la minacciano. Non si può tagliare costantemente e, allo stesso tempo, puntare sulla qualità. Inoltre, anche dalla ricerca del Reuters Institute abbiamo visto come la professionalità alla fine paghi. Per lo meno in termini di riconoscibilità a autorevolezza, soprattutto se consideriamo che la funzione dei giornalisti non è più (non in maniera esclusiva) quella di primi produttori delle notizie: le notizie sono ovunque, non c’è bisogno di giornalisti che le producano, semmai il nostro compito è diventato proporre dei criteri valoriali”.
“D’altronde”, come ha aggiunto Splendore, “questa ricerca ci consegna anche due dati positivi: il primo riguarda la penetrazione della rete nel nostro Paese che dal 2017 a oggi è passata dal 63% al 91%. Come a dire: il percorso è finalmente giunto a compimento. Ora che la quasi totalità della popolazione ha accesso a internet e lo usa per i fini più disparati, la situazione si può ritenere piuttosto consolidata, quindi saranno gli attori a cambiare nei prossimi dieci o quindici anni. La seconda buona notizia è che l’Italia, nonostante qualche dato specifico, è nella media globale. Quante volte ci hanno (e ci siamo) raccontati quanto noi fossimo atipici, esagerati in un senso o nell’altro rispetto agli altri stati, anomali e quindi difficili da categorizzare. Il rapporto Reuters ci consegna un quadro diverso: non siamo così strani e, di conseguenza, non stiamo andando così male come credevamo. Da ciò deriva un ulteriore aspetto positivo: la fiducia nel giornalismo, tutto sommato, tiene. Certo, ci sono realtà diverse e casi peculiari ma l’informazione fatta dai professionisti non ha registrato quel calo apocalittico che credevamo. Ora il punto è riuscire a elaborare nuovi modelli di business che possano anche rilanciare il mondo dell’editoria giornalistica”.