Gli italiani non fanno più figli. Gli italiani non tutelano lo straordinario patrimonio artistico, culturale e ambientale dell’Italia, o lo fanno poco e male. Allora, chi si prenderà cura di questo patrimonio? Chi lo svilupperà e farà crescere nell’era della globalizzazione? Insomma: quale sarà il futuro del savoir faire italico, quell’insieme raffinato di ingegno, gusto, stile, eleganza, particolarissimo spirito imprenditoriale, di inimitabile buona cucina che hanno reso unica e inimitabile l’Italian way of life?
Sono le domande alle quali propone una risposta “La rete italica, idee per un Commonwealth”, scritto da Niccolò d’Aquino corrispondente dall’Italia di America Oggi. Il libro (edito da IDE Italic Digital Editions, euro 10 per la versione cartacea e euro 2.99 per la versione ebook, ordinabili su www.portalebook.it, su Amazon e sui principali store digitali come Bookrepublic) raccoglie e mette in ordine cronologico le idee portate avanti negli ultimi venti anni da Piero Bassetti, fondatore e attuale presidente del think tank Globus et Locus e con un lungo passato in politica: è stato parlamentare della DC, a capo della Camera di Commercio di Milano, di Unioncamere e di Assocamerestero.
Nei vari testi pubblicati in questa raccolta-antologia, scritti oltre che da Bassetti e da d’Aquino, anche da personalità e studiosi come Carlo Petrini, Fabio Finotti, Massimo Vedovelli, Mauro Magatti, Vittorio Emanuele Parsi, Stefano Rolando, Maddalena Tirabassi, Riccardo Giumelli, padre Luciano Segafreddo, Alberto Abruzzese, vengono documentati cronologicamente la nascita e lo sviluppo di un pensiero – anzi, nelle parole di Bassetti: “Una sfida politica” che è andata maturando e crescendo negli ultimi venti anni. Una sfida che, spazzando i pessimismi dei più sulle sorti dell’Italia e delle sue inestimabili ricchezze, offre una proposta apparentemente rivoluzionaria ma in realtà positiva e stimolante. E, soprattutto, possibile.
Al centro, protagonisti destinati a raccogliere il testimone anche se ancora non sanno di avere questo compito, c’è una categoria nuovissima di persone: gli italici. Molto in sintesi, nelle parole di Bassetti: “L’italico è un membro della vasta rete o aggregazione globale che si basa sui valori condivisi di una civiltà a cui hanno partecipato anche i popoli italici della tradizione, ma che si è soprattutto sviluppata nel corso dei secoli includendo l’esperienza della Romanità, del Cristianesimo, dell’Impero, del Rinascimento, sino ad arrivare all’era glocale in cui viviamo, arricchendosi di nuove potenzialità. Si ha italicità quando la cultura di un individuo di origine o filìa italiana, incontrandosi con una cultura locale da essa diversa e distinta, viene da questa ibridata, così che la persona coinvolta in questo processo risulterà in possesso di elementi culturali prodotti dalla sintesi dell’intera gamma delle sue ibridazioni. Questa base intrisa di italianità peninsulare ma da essa diversa perché ibridata dalle molte culture incontrate, è appunto l’italicità, “qualcosa” la cui forza di attrazione è sufficiente per accomunarne i possessori attorno a un parziale ma sufficientemente analogo sistema di valori, costumi, interessi”.
Ne deriva l’ipotesi di un possibile network ancora in divenire, di quel Commonwealth di cui si parla nel sottototilo: una dimensione socio-culturale che, essendo impersonata da un ingente numero di persone (non più soltanto i 58 milioni e in calo degli italiani di passaporto, ma circa 250 milioni dai passaporti più diversi), individua un “tertium genus” identitario.
L’italicità – precisa d’Aquino – è una situazione storica che politicamente non è mai esistita, a differenza del Commonwealth britannico e dell’Hispanidad. Certo, il Risorgimento è stato un gradino, un balzo in avanti, non solo quantitativo ma anche identitario. A lungo nel mondo ci sono stati i lombardi, i veneti, i fiorentini, i napoletani, i siciliani, i ticinesi; solo recentemente gli italiani sono apparsi come espressione di uno Stato nazionale ma quando vanno all’estero tornano a presentarsi come lombardi, veneti, napoletani, ecc. Senonché, in tempi recenti, rafforzandosi e approfittando della tendenza del nostro mondo a globalizzarsi, il fenomeno di una nuova identificazione si è andato rivelando.
Ed è proprio da questa condizione che gli italici sviluppano oggi un senso di appartenenza di tipo nuovo: gli italici possono e devono svegliarsi al loro ruolo globale, riconoscendosi come una grande comunità globale, interconnessa al suo interno da un “comune sentire” molto più che da una comune appartenenza etnico-linguistica e nazionale. L’italicità può anche essere, come in alcuni dei testi pubblicati nel volume viene detto, una civilizzazione o aggregazione “seconda”, cioè non necessariamente la prima e unica? “Non c’è dubbio che sì” rispondono Bassetti e d’Aquino. “Questo è il fulcro della glocalizzazione. La community italica, in questo contesto, è senz’altro un valore aggiunto per coloro che scelgono di farne parte. Se la capacità di contare di più nel mondo si esprime oggi anche in un plus di conoscenza e di saper vivere, ecco che l’expertise umana che è nelle radici del pensiero italico è senz’altro un asset da impiegare. Pensiamo alle modalità con le quali la cultura italica si è affermata nel mondo, grazie alle integrazioni delle culture con le quali essa si è ibridata, quella nordamericana o in genere quella anglosassone, ma anche quella ispanica: non tramite iniziative militari, come hanno fatto altri popoli, ma attraverso un processo di affermazione culturale”.