#disinformazione #democrazia #elezioni, il seminario organizzato da TuttiMedia, in collaborazione con la Rappresentanza della Commissione Europea in Italia ha raccolto molte opinioni che vale la pena ascoltare. In questa pagina Christian Ruggiero (professore Associato in Sociologia dei Processi Culturali e Comunicativi presso il Dipartimento di Comunicazione e Ricerca Sociale Sapienza).
Riprendo alcune osservazioni di chi mi ha preceduto, a partire dalla distinzione (ricordata da Francesco Giorgino, nella sua doppia veste di Direttore Ufficio Studi Rai e rappresentante dell’Osservatorio Italiano sui Media Digitali) tra fake news vere e proprie e forme di disinformazione che possono essere non intenzionali. Che è a dire, tra forme di “cortocircuito” comunicativo che possono comunque avere effetti deleteri, ma non sono generate da intenzioni malevole, e forme di diffusione di informazioni volutamente manipolate se non del tutto false, generate con uno scopo a volte occulto ma preciso nell’identificare e colpire il target al quale nuocere. Aggiungo un tassello, un termine che esiste da ben più tempo di quello di “fake news” ma che mantiene un’importanza ineguagliata nel determinare forme di comunicazione che mentono sapendo di mentire per raggiungere uno scopo preciso, di vantaggio per la propria squadra e di svantaggio per la squadra avversaria. Sto parlando del termine “propaganda”. Abbiamo citato l’uso “strumentale” della decisione UE sulla farina di grillo da parte di un partito politico, che è un chiaro esempio di distorsione volontaria della realtà a fini appunto propagandistici – qualcosa di più antico e più profondo delle fake.
Nel corso di questa mattinata è stato anche ricordato un grande intellettuale, Umberto Eco, e il suo pensiero rispetto a vizi e virtù di Internet. Anche qui, occorre fare una precisazione o si rischia di non comprendere la citazione, che spesso si riporta, sulle “legioni di imbecilli” che popolerebbero i social media. Eco era critico nei confronti di Internet? Non in quanto tale, anzi, nella sua forma di biblioteca universale la rete delle reti era per lui uno strumento eccezionale – sempre ricordando che “essere colti non significa ricordare tutte le nozioni, ma sapere dove andare a cercarle”. Diverso il caso dei social, che ribaltano la logica: non più l’informazione che tu cerchi, ma l’informazione che viene a cercare te. È comprensibile che, di fronte a un flusso alluvionale di informazioni incontrollabili, Eco fosse un po’ spaventato: la sua “guerriglia semiologica” prevedeva (provocatoriamente) di occupare una sedia avanti a ogni apparecchio televisivo, collocandovi un mediatore, una figura che aiutasse i fruitori a decodificarne il messaggio. Ma come si fa a occupare una sedia avanti a ogni smartphone?
Veniamo a quello che è l’oggetto specifico dell’incontro di oggi: il nesso tra informazione ed elezioni europee. Abbiamo visto in apertura un video davvero molto efficace, salvo secondo me un passaggio. A un certo punto ci dice: “sii critico rispetto a ciò che leggi online”. C’è un grosso rischio rispetto a questa impostazione: mentre coloro i quali stanno da questa parte del tavolo, per età e competenze, hanno ben presente la differenza tra la comunicazione che transita per i media mainstream e quella che sfrutta i media digitali, i giovani vivono in un ambiente che è digitale per definizione, in cui la stessa aggiunta della parola “online” è superflua. Ciò che leggono, lo leggono online. E allora? Come evitare fraintendimenti, e forse anche peggio di far apparire un simile messaggio come inutilmente paternalista?
Occorre anzitutto fare attenzione quando si divide tra ciò che è mainstream, dunque certamente certificato e facilmente identificabile come di qualità e ciò che non lo è. Rischiamo che l’Europa sia al di qua della barricata che stiamo creando, ma che i giovani finiscano per l’essere invece al di là.
In più, occorre attenzione a come definire la “qualità” ad esempio dell’informazione. L’informazione “certificata”, quella prodotta da giornalisti professionisti per testate registrate, i prodotti riconosciuti da un Ordine professionale che veglia sulla loro correttezza e sul valore che possono aggiungere alla democrazia, è facilmente definibile come di qualità. Ma ciò non significa che tutta l’informazione non certificata non lo sia. Certo, ci sono fabbriche – e anche botteghe – di fake news. Ma non possiamo ignorare il fatto che la scena della creazione di contenuti culturali, e informativi, è animata da nuovi protagonisti, appunto i creators. Come si valuta la qualità del loro lavoro? Con la spunta blu di chi abita YouTube, Instagram e Facebook? Non solo. Anche e soprattutto attraverso una bellissima parola che è reputazione. Reputazione significa che, se sono inaffidabile oggi sui social, domani la mia community mi segue meno, le visualizzazioni diminuiscono, la monetizzazione pure.
In questo nuovo mondo esistono regole che non sono quelle a cui siamo abituati e che sicuramente non contengono quella attenzione alla deontologia del giornalismo tradizionale. Ecco perché c’è bisogno di confronto: se mettiamo insieme le diversità possiamo, per esempio, far crescere la consapevolezza che l’etica costruisce la reputazione, e in qualche modo chiudere il cerchio.
Si dirà: come raggiungere obiettivi simili nel contesto dell’informazione personalizzata, dove l’utente si chiude nella sua “bolla”, sceglie di essere informato di determinati argomenti e non altri e rischia, se gli interessa solo lo sport, di non sapere quali siano i conflitti aperti nel mondo in questo momento? Una questione che sollevava Luca Rigoni (Mediaset), richiamando uno dei pionieri della rete, Nicholas Negroponte, che appunto prefigurava i pericoli di un “daily me” che svuotasse di significato il “daily us”, l’agenda comune di temi importanti sul tavolo in un dato momento. Questa è una tendenza di Internet che il mondo dei social sta cambiando in positivo, perché nell’ambiente social il rimbalzo dell’informazione è infinito. Ed è in questo intreccio di flussi, mainstream e social, interni ed esterni alla propria “bolla”, guidati dall’intenzione dell’utente o dall’algoritmo – una condizione che comprensibilmente preoccupava Eco – che io lettore, anche se non ho scelto di essere informato su un determinato argomento, ci arrivo comunque. A questo punto però occorre farsi la domanda più importante: una volta che l’informazione ha raggiunto l’utente, cosa spingerà l’utente a smettere per un attimo di scrollare, a farsi venire la voglia di fare quel click in più che gli consenta di passare dalle informazioni contenute nel titolo almeno alle 5 “W” dell’attacco della notizia?
Questa è la più grande sfida che abbiamo davanti: come facciamo noi, da questa parte del tavolo, che siamo tutti d’accordo che quel click in più vale la pena, a convincere gli studenti che ci stanno ascoltando? Perché ogni singolo click in più sarà per noi una vittoria.