Per gli italiani, fino a poco tempo fa la Crimea e il Mare d’Azov erano reminiscenze sbiadite da scuola media: una guerra combattuta fra il 1853 e il 1856, l’Impero Russo, cioè la Russia degli zar, contro un’alleanza composta da Impero Ottomano, Gran Bretagna, Francia e Regno di Sardegna: il primo vagito di presenza internazionale di quello che a breve sarebbe divenuto il Regno d’Italia; e la prova d’esordio, estremamente cruenta, anche per le pestilenze che falcidiarono i soldati, dei bersaglieri al comando di Alfonso La Marmora. La pace, conclusa con il Congresso di Parigi nel 1856, consolidò l’intesa tra Francia e Regno di Sardegna che condusse nel 1859 alla Seconda Guerra d’Indipendenza.
Dal 2014, però, la Crimea è tornata alla ribalta internazionale, oggetto del desiderio di Mosca e del rimpianto di Kiev. Russa per storia, lingua, popolazione, ma ucraina dal 1954 per decisione di Nikita Krusciov – all’epoca, significava poco, perché era tutta Unione Sovietica -, la Crimea è stata riannessa alla Russia, dopo un contestato referendum a testimoniare la volontà popolare in tal senso. Fu l’apice della crisi seguita al rovesciamento del legittimo presidente ucraino Viktor Janucovich, filo-russo, che fece esplodere il conflitto – ancora in corso – nel Donbass e in altre regioni dell’Ucraina orientale, al confine con la Russia. Una vicenda complessa, che russi e ucraini raccontano con speculare propaganda.
Il sussulto di tensione fra Mosca e Kiev
Domenica scorsa, 25 novembre, la tensione tra Mosca e Kiev, stabile con tendenza al cronico, è d’improvviso tornata a essere acuta; e, parallelamente, s’è riacceso il contrasto tra Russia e Occidente. C’è stata una ‘battaglia navale’ nelle acque dello stretto di Kerch, tra il Mar Nero e il Mare d’Azov: la Guardia Costiera russa ha intercettato unità della Marina militare ucraina, speronamenti, feriti, navi ucraine sequestrate e marinai ucraini, rei confessi in video clip, processati per direttissima.
Reciproche le accuse tra Mosca e Kiev. Se si guarda al ‘cui prodest’, la provocazione appare, però, ucraina: Maurizio Vezzosi nota su Quadrante Futuro che il presidente Petro Poroshenko, in difficoltà nei sondaggi a quattro mesi dalle elezioni del 31 marzo 2019, ha immediatamente firmato un decreto, prontamente ratificato dal Parlamento, per istituire la legge marziale, pur affermando di non voler la guerra – nessuno teme davvero che possa scoppiare, anche perché di fatto nel Donbass è sempre in corso -. La legge marziale, che era già in vigore in 10 regioni del Paese, consente di sigillare le frontiere, censurare del tutto i media, istituire il coprifuoco, obbligare al lavoro gratuito i lavoratori delle aziende strategiche, vietare ogni sciopero, manifestazione o presidio di protesta, liquidare formazioni politiche potenzialmente ostili e sospendere referendum ed elezioni. Forse non accadrà nulla di tutto ciò, ma potrebbe accadere.
Putin al G20 da play maker delle crisi internazionali
Poroshenko può trarre i suoi vantaggi da quanto avvenuto. Il presidente russo Vladimir Putin, invece, si sarebbe probabilmente evitato tutta questa sceneggiata, anche se, una volta iniziata, vi ha contribuito: la tempistica, per lui e per la Russia, non è delle migliori. Nel fine settimana, Buenos Aires ospita il Vertice del G20 e diventa il crocevia di tutte le crisi internazionali: quelle economiche e commerciali – la guerra dei dazi tra Usa e Cina –; quelle politico-militari – come, appunto, il riacuirsi delle tensioni tra Russia e Ucraina –; e quelle endemiche e ormai croniche – la guerra civile in Siria, le tensioni sul nucleare con Iran e Corea del Nord, e altre ancora -. La capitale di un Paese a sua volta sull’orlo di una crisi di nervi, dov’è difficile garantire la sicurezza di una partita di calcio, diventa il crogiolo di tutti i contrasti mondiali.
Putin ci arriva da uomo forte al comando e in controllo: un’immagine un po’ scalfita, incrinata, appannata, dalla vicenda ucraina. La Russia e il suo presidente sono play makers in quasi tutti gli scenari di crisi mondiali: in Medio Oriente hanno ritrovato centralità con il conflitto siriano, complice anche l’uscita di scena degli Usa; in Estremo Oriente, hanno un ruolo negli sviluppi con la Corea del Nord, sia pure meno forte di quella della Cina, che ha più influenza sul regime di Pyongyang; e le scelte – sbagliate – di Donald Trump li hanno rimessi in gioco nelle partite del nucleare, sia sul fronte iraniano, sia su quello della ripresa della corsa agli armamenti, data l’intenzione di Washington di denunciare il Trattato sugli Inf, i missili a gittata intermedia.
La fascinazione per gli uomini forti ed efficienti
In questo contesto, il sussulto della crisi con l’Ucraina, non innescato dalla Russia, ma neppure smorzato, può pure divenire una sfida di Mosca ad americani ed europei: gli uni poco reattivi, gli altri subito inclini a rimodulare le sanzioni come unico strumento di politica internazionale. E l’Onu? La sua impotenza, in una crisi che coinvolge uno dei Paesi con diritto di veto, è nota. Il ministro degli Esteri russo Serghiei Lavrov dice che non c’è bisogno di mediatori: Francia e Germania hanno già fatto da mallevadori degli accordi di Minsk del febbraio 2015, che sono un paralume del conflitto, e si sono ora offerti di nuovo; ma Mosca stavolta vuole fare da sola, sentendosi più forte di Kiev. Putin, questo, lo copia da Trump: perché il multilateralismo, se nell’uno contro uno vinci tu? Tanto più che la Nato e l’Ue sono sospette agli occhi russi: non piacciono a Mosca i progetti, non attuali, ma evocati, di adesione di Kiev all’Alleanza atlantica e all’Unione europea.
A Buenos Aires, il leader russo non avrà probabilmente bisogno di rifare il numero del 2014, quando lasciò in anticipo il Vertice del G20 di Brisbane in Australia, perché irritato da come veniva trattato – eravamo nel pieno della crisi ucraina -. Ora, Putin può permettersi di gestire l’acuirsi della tensione alla vigilia d’un possibile bilaterale, a margine del Vertice, con Trump, che ha più guai di lui. Un po’ perché sul fronte internazionale il presidente Usa se li cerca, inanellando decisioni provocatorie anche per i suoi alleati; e un po’ perché i leader occidentali devono fare i conti con le elezioni e gli elettori, mentre Putin, con i tassi d’approvazione di cui gode, è, da quel punto di vista, ‘blindato’.
Lui e il presidente cinese Xi Jinping, nominato addirittura ‘a vita’, hanno il vantaggio, rispetto ai loro interlocutori, anche ad autocrati autoritari come il turco Erdogan o a generali golpisti come l’egiziano al-Sisi, di non doversi troppo preoccupare del fronte interno, avendo acquisito il consenso interno nonostante – o forse grazie – uno scarso rispetto dei diritti fondamentali. Ne deriva il pericolo per la democrazia insito nella fascinazione anche occidentale, specie italiana, per leader forti dall’azione efficace: la percezione di una governance nazionale e internazionale inefficiente produce leader showman alla Trump e può sfociare in veri e propri regimi.