Anche quest’anno, dopo l’evento milanese di luglio, GfK Eurisko ha presentato a Roma il suo rapporto annuale sul cambiamento del consumatore italiano. Al centro dell’attenzione, i valori distintivi degli italiani e del Made in Italy (il rapporto è consultabile online). L’idea di fondo è quella di concentrarsi, in un momento così delicato per la nostra economia, a pensare su se e come provare a rilanciarci grazie ad un brand che l’immaginario collettivo ci attribuisce come nostro più grande punto di forza competitivo, ma soprattutto vedere se e come tale immaginario sia davvero, o sia ancora, fedele al reale.
E alla resa dei conti, i dati non sono del tutto scontati, né rassicuranti. Dopo aver perso posizione qualche anno fa, siamo ancora stabili al 7° posto della classifica dei primi 50 Paesi in termini di Nation Brand Index, le eccellenze singole esistono e sono di grande valore, ma sembrano mancare un progetto «politico». La nostra idea di Made in Italy risulta, quindi, a ben vedere, ancora troppo legata alla radice geografica di appartenenza dei prodotti e questo ci rende sempre meno competitivi. Di qui la necessità espressa, di riposizionarci: costruire una nuova politica industriale del Made in Italy per avere un brand «cross sectors» basato su un mix unico che parte dal «prodotto qui», si aggancia alla tradizione ed all’heritage (valori che ci vedono ancora primeggiare in termini di percepito), ma parla anche di genialità, bellezza, qualità (a prezzi onesti), equilibrio, socialità; un concetto dinamico, di cui si possono approvvigionare sistemi territoriali ma anche sistemi di impresa estere.
Le imprese hanno già iniziato a fare “delle cicatrici della crisi, dei valori propri” (sottolinea Fabrizio Fornezza nel suo intervento), dunque basterebbe adeguarsi ad una nuova dieta mediatica più in linea con quella globale e uscire dall’inganno per cui aggrapparsi alla radice geografica sia sempre la soluzione. E poi. Lo vogliamo sfruttare questo Expo?
Gianna Angelini