di ENNIO CARETTO –
Adesso che noi vecchi giornalisti da cacciatori d’informazione siamo diventati cacciagione delle informazioni stesse, adesso che siamo eclissati da ragazzini con marchingegni elettronici che non capiamo, adesso che siamo ridotti al ruolo di filtri di una società traumaticamente multimediale, è ora che facciamo il “mea culpa”. Quanti di noi, trent’anni fa, quando nacque Media Duemila, si resero conto che la rivoluzione informatica appena iniziata avrebbe cambiato la nostra famiglia, la nostra vita, la nostra casa, i nostri rapporti, la nostra città, il nostro paese, il mondo, e che saremmo rimasti collegati in eterno a una rete globale che non riposa mai e quindi, volenti o nolenti, che saremmo stati reperibili sempre e ovunque? In tutta onestà, io non immaginai minimente quali effetti avrebbero avuto le nuove tecnologie della comunicazione, come esse avrebbero reso l’esistenza di tutti così piena e interessante, secondo l’antica maledizione cinese, come avrebbero condizionato la cultura, la politica, l’economia.
Quel che è peggio, non mi sforzai di immaginarlo, né nei trent’anni da allora trascorsi mi sforzai di tenere il passo con queste novità, non perché pensassi che si stesse meglio prima, ma per incapacità o per pigrizia. Nella nostra professione ho incontrato passaggi obbligati, come l’accoppiatore acustico per la trasmissione dei servizi, che ho superato faticosamente, da analfabeta elettronico. Ma ancora mi sento un dinosauro. La mia casa è wireless naturalmente, però maneggio il computer per inviare e ricevere mail, fare ricerche su google, scrivere, e basta. Uso il cellulare solo per parlare, e detesto gli SMS. Se mi trovo in difficoltà, ho chi mi aiuta: i miei nipoti, i miei maestri. Mi sembra di essere mio padre, che era nato nel 1888, e che si ostinò a girare in calesse fino alla Seconda guerra mondiale, diffidando dell’automobile.
Eppure, il 1983 fu una svolta per la mia generazione. Ero a New York come corrispondente de La Stampa e ricordo bene la copertina di Time, una sorpresa, non “L’uomo dell’anno” bensì “La macchina dell’anno”, il computer. Ricordo che fu lanciato anche il primo telefono portatile, un Motorola di un chilo circa, che costava 4 mila dollari. Sono appassionato di storia sociale, lamento che la storia venga narrata prevalentemente da un punto di vista politico e militare, e avrei dovuto afferrare l’importanza sociale di entrambi gli eventi. Invece li sottovalutai. Forse ero troppo preso dalla cronaca: gli scandali Calvi, il banchiere di Dio, e della P2 in Italia; il braccio di ferro tra Papa Paolo Giovanni II e il generale Jaruzelski sulla Polonia; la strage dei marines americani in Libano, l’invasione americana di Grenada, l’abbattimento dell’aereo di linea sudcoreano da parte dei sovietici che rischiò di innescare un conflitto.
O forse ero troppo legato ai ferri del mestiere del tempo: il telefono fisso, il fax, la telescrivente. Ero padrone di quest’ultima, sapevo leggere i fori del nastro, apportarvi correzioni e trasmettere, al punto da non usare più la macchina da scrivere. Si trattava di ferri che ti ancoravano all’ufficio, ma ti davano una certa sicurezza. Malvolentieri dovetti ammettere che il computer era superiore perché portatile e infinitamente più duttile. Mi spronò Giovanni Giovannini, il nostro mentore, che aveva colto subito la metamorfosi in corso nei media. Anni più tardi, lo divertì molto un articolo che scrissi per Media Duemila sul mio furgone, con cui portavo in giro la mia famiglia. L’avevo dotato di un cellulare, un fax, e una televisione a scheda che captava i programmi locali di città in città, oltre che della radio e del computer, facendone un mini ufficio viaggiante.
Come non immaginai che cosa la rivoluzione informatica ci avrebbe portato, così non riesco a immaginare che cosa la società multimediale porterà ai miei nipoti. Sicuramente altre meraviglie, che concepiranno essi stessi, come le concepì la nostra generazione, e che questa rivista saprà divulgare. Auguro soltanto loro che la politica e l’economia le impieghino per il bene comune. Troppo spesso, per ciò che concerne l’eguaglianza e la giustizia, l’umanità è restata indietro rispetto alle proprie invenzioni.
Ennio Caretto
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