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Nella campagna elettorale per le presidenziali statunitensi 2016, Hillary Rodham Clinton ha definito Donald Trump “il miglior reclutatore” del sedicente Stato islamico e dell’autoproclamato Califfo, quando, dopo la strage di San Bernardino, il magnate dell’immobiliare propose di mettere al bando dagli Usa i musulmani. E gli integralisti di al Shabaab, somali “affiliati” alle milizie jihadiste, le diedero ragione, o ne raccolsero lo spunto: le affermazioni anti-Islam dello showman populista finirono in un loro video, 11 minuti tratti da discorso fatto nella South Carolina. Fortuna che i “clip” degli al Shabaab non hanno l’efficacia di quelli del Califfo: 51 minuti complessivi, lunghe tiritere, molti aspiranti combattenti si saranno annoiati e avranno cliccato altrove prima di arrivare a Trump.

Lo showman, però, non s’è fatto smuovere né dalle critiche di Hillary né dalla strumentalizzazione dei somali circa la sua idea sul terrorismo: nel suo primo spot, trasmesso a inizio anno dalle tv dello Iowa e del New Hampshire, ha anzi ribadito e confermato le sue proposte più controverse. “I politici possono fare finta che si tratti di qualcos’altro, ma Donald Trump lo chiama terrorismo islamico radicale”, recitava una voce fuori campo, riferendosi alla strage di San Bernardino. E aggiunge: “Per questo, Trump propone una sospensione momentanea degli ingressi dei musulmani negli Usa, finché non capiamo che cosa sta succedendo… Trump taglierà la testa allo Stato islamico in tempi rapidi, prenderà il loro petrolio, bloccherà l’immigrazione clandestina illegale costruendo un muro lungo il confine meridionale, che il Messico pagherà”.

La polemica tra l’ex first lady e il miliardario ha tutte le stimmate della propaganda elettorale. Ma l’accusa di Hillary al rivale richiama le discussioni che hanno attraversato, un po’ superficialmente, a mio avviso, il giornalismo italiano dopo le carneficine di Parigi del 13 novembre, con quotidiani che associavano e spesso sovrapponevano terrorismo e Islam, o terroristi e immigrati, senza fare, almeno nei titoli, distinguo di sorta. Mentre un punto di riferimento etico della categoria come Vittorio Roidi denunciava, a caldo, i ritardi e le insufficienze dei principali Tg a captare la gravità e la drammaticità di quanto stava accadendo.

E già 14 novembre, Giovanni Maria Bellu, presidente dell’Associazione Carta di Roma, avvertiva: “È il momento della responsabilità e del rigore – che, in realtà, non dovrebbero mai venire meno, ndr –: la strage di Parigi impone ai giornalisti italiani di seguire ancora con maggiore scrupolo le regole del codice deontologico che si sono dati nel 2008”.

Dunque, le distanze e il dibattito tra Hillary e Trump riproducevano quanto avvenuto, tre settimane prima, fra i giornalisti italiani e, senz’altro, fra i giornalisti di tutti i Paesi dove la libertà d’espressione è iscritta fra le libertà fondamentali ed è rispettata. Così com’è ricorrente il dilemma su come trattare l’informazione che viene dai terroristi, nell’oscillazione del pendolo tra l’ansia d’evitare di fare da cassa di risonanza e l’imperativo di non tacere le notizie.
È palese, quasi un postulato, che criminalizzare e/o bandire un miliardo e 600 milioni di musulmani nel Mondo – di cui solo un quinto vivono in Medio Oriente e appena 44 milioni in Europa, il 6% della popolazione –, così come utilizzare in modo apocalittico e indiscriminato il materiale fornito dai terroristi, fa il loro gioco. Il professor Michael Jetter, dell’Istituto per lo Studio del Lavoro in Germania, ha analizzato più di 60.000 attacchi terroristici tra il 1970 e il 2012, riscontrando che i gruppi terroristici hanno sempre cercato di usare i media per promuovere le loro agende: così, immagini di decapitazioni filmate dalle milizie jihadiste e diffuse su Internet hanno trasformato lo Stato islamico in “un marchio globale temuto” e sollevato interrogativi angosciosi se a organizzazioni del genere debba essere dato “l’ossigeno della pubblicità”.

I media, che lo si voglia o no, giocano un ruolo fondamentale nel disegno dello Stato islamico; e non da oggi perché era già vero, ad esempio, ai tempi in Italia delle Brigate Rosse. Con la variante, assolutamente non indifferente, che, allora, la comunicazione dei terroristi doveva passare attraverso la mediazione giornalistica, mentre oggi non è più così: piazzando i loro “prodotti”, video, tweets, proclami, comunicati, sul web, e facendolo in modo valido, intrigante e accattivante, “spettacolarizzando” l’orrore, gli informatici del Califfo possono raggiungere un pubblico globale, senza neppure bisogno che i media tradizionali li riprendano e li rilancino.

Negli Anni Settanta, il dibattito etico-professionale su come trattare i voluminosi comunicati diffusi delle Brigate Rosse raggiunse, in Italia, il suo culmine durante il sequestro di Aldo Moro. Quei testi non avevano nulla dell’efficacia e dell’immediatezza mediatica di quelli del terrorismo integralista dei giorni nostri: documenti lunghissimi, scritti fitti fitti, quasi senza paragrafi, e ciclostilati spesso su carta di mediocre qualità, rigorosamente in bianco e nero, con l’unica fantasia grafica costituita da quello che oggi noi chiameremmo logo, la scritta sottile Brigate Rosse e la stella a cinque punte.

I brigatisti diffondevano i loro documenti o facendone trovare risme fuori dalle fabbriche – valeva soprattutto per le cosiddette “risoluzioni strategiche”, che davano la linea dell’organizzazione –, oppure recapitandone una copia a un media che facesse da moltiplicatore. Allora cronista a Torino alla Gazzetta del Popolo, m’è capitato più volte di ricevere la telefonata di un brigatista, apprendere che un comunicato – in genere, la rivendicazione di un attentato – era stato depositato in una buca delle lettere o in una cabina telefonica e andare a ritirarlo accompagnato da un fotografo.

Acquisito il documento, bisognava, infatti, tornare in redazione, fotocopiarlo e solo a quel punto avvertire le autorità e consegnare loro l’originale, avendo almeno ottenuto, con tutto questo viavai, il vantaggio, sulla concorrenza giornalistica, dell’integralità del testo. Mi feci una collezione che tuttora conservo di rivendicazioni brigatiste, omicidi efferati, sequestri, rituali “gambizzazioni”.

A un certo punto, i terroristi si resero conto che, se un loro documento arrivava a un singolo media, l’eco era limitata e scoprirono l’effetto moltiplicatore delle agenzie di stampa: darlo a una di esse, significava farlo avere a tutta la stampa italiana. E fu a questo punto, siamo alla strage di via Fani e al sequestro di Moro, che l’intreccio tra etica e informazione divenne assillante: dovevano l’ANSA, la maggiore agenzia di stampa italiana, e le altre agenzie minori prestarsi al gioco dei brigatisti, facendo da grancassa ai loro testi, oppure no?

L’allora direttore dell’ANSA Sergio Lepri, una figura di riferimento del giornalismo italiano onesto e rigoroso, decise di distribuire i documenti dei terroristi, indirizzandoli all’attenzione di direttori e capi redattori centrali dei vari media, in modo da consentire loro di valutare personalmente e volta a volta se e cosa pubblicare.

Ma, oggi, i terroristi arrivano senza intermediari all’opinione pubblica. I media possono ancora decidere se e quale spazio dare ai loro messaggi, ma il rubinetto della propaganda del terrore è comunque sempre aperto.

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Giampiero Gramaglia
Giornalista, collabora con vari media (periodici, quotidiani, siti, radio, tv), dopo avere lavorato per trent'anni all'ANSA, di cui è stato direttore dal 2006 al 2009. Dirige i corsi e le testate della scuola di giornalismo di Urbino e tiene corsi di giornalismo alla Sapienza.