Sembra una partita a scacchi. Gli ucraini muovono i pedoni nell’area di Bakhmut e riconquistano una casella di territorio – 20 kmq, dicono -. Ma non è l’inizio della controffensiva di primavera: scaramucce sanguinose in un fazzoletto di terra martoriata, per di più giudicato strategicamente irrilevante. I russi lanciano su Kiev, nella notte tra lunedì e martedì, l’attacco più intenso di sempre, per numero di missili e droni: una prova di terrore, che non sposta d’un centimetro le posizioni.
L’unico che si muove senza remore è il presidente ucraino Volodymyr Zelensky: in meno di 72 ore, tra sabato e lunedì, è a Roma e in Vaticano, a Berlino, Parigi e in Gran Bretagna. Tornato in patria, riunisce i vertici militari, per illustrare ai generali quanto ottenuto come ulteriori forniture di armi e munizioni; e interviene in video-conferenza al Vertice del Consiglio d’Europa a Reykjavik, dove leader di 50 Paesi decidono di creare un registro internazionale delle atrocità e dei danni di guerra.
Il tour europeo di Zelensky non avvicina la pace. Di tutti gli incontri del presidente ucraino sabato a Roma, l’unico che poteva accelerare la fine del conflitto – o una sospensione delle ostilità – era quello con Papa Francesco, inserito in un disegno negoziale della Santa Sede.
Ma Kiev insiste che l’unico piano di pace praticabile è quello ucraino. Rinvigorito dal coro di leader che dichiarano pubblicamente di volere essere “al fianco dell’Ucraina fin quando sarà necessario” e che chiedono “una pace equa”, Zelensky è piuttosto scoraggiante, quasi scostante, dopo il colloquio in Vaticano,: “Con tutto il rispetto per sua Santità, non abbiamo bisogno di mediatori… Non intendo parlare con Putin, piccolo dittatore che uccide i propri cittadini…”.
L’unico ruolo ‘consentito’ alla diplomazia vaticana è quello di impegnarsi per restituire alle famiglie “i bambini rapiti”: un obiettivo umanitario significativo, ma che, come uno scambio prigionieri. non incide sulle sorti del conflitto; un gesto di carità più che un esercizio di diplomazia.
Invece Francesco è impegnato in un tentativo di dialogo fra le parti in guerra, unico sensato prologo a un’eventuale tregua; e tesse una tela di contatti e missioni. Ricevendo Zelensky, il Papa si mette, agli occhi di Mosca, in una posizione di parte, come il presidente cinese Xi Jinping, verso Kiev, quando fece visita al leader russo Vladimir Putin il 20 marzo. Ora, Francesco deve riuscire ad avere un contatto con Putin, come Xi in capo a un mese riuscì a fare con Zelensky; altrimenti la missione di pace è fallita prima di cominciare – sempre che vi sia margine per portarla avanti -.