Semmai ce ne fosse bisogno, la geo-politica del pallone non lascia dubbi: l’Europa non se la passa bene. Dal 2002, cioè dai Mondiali in Giappone e Corea del Sud, la Coppa del Mondo era sempre stata vinta dalla squadra di un Paese dell’Ue: dopo il Brasile, Italia, Spagna, Germania, Francia, cioè il quadrilatero calcistico dell’Unione europea -; e addirittura, nel 2006 in Germania e nel 2018 in Russia, tutte e quattro le semifinaliste erano state europee (Italia, Francia, Germania e Portogallo e poi Francia, Croazia, Belgio e Inghilterra, che non aveva ancora fatto la Brexit).

Questa volta, invece, il titolo se n’è tornato, vent’anni dopo, in America latina, in Argentina; e c’erano solo due semifinaliste Ue, Francia e Croazia. Dunque, Qatar 2022 certifica un aspetto, certamente non grave, ma appariscente, del disagio, dell’impaccio, della crisi europea.

Doveva essere il Mondiale della denuncia della discriminazione e dei misfatti dell’Emirato, almeno dal punto di vista del rispetto dei diritti umani, sociali e di genere. Invece, i soloni del calcio hanno imposto la sordina a ogni forma di protesta, per quanto giusta e civile e non violenta fosse. E, oltre che con la sconfitta sul campo, Qatar 2022 si chiude, a maggiore scorno di noi europei, nel segno della corruzione nelle Istituzioni di Bruxelles: pagano gli emiri, e non solo; ma i soldi li prendono gli eletti del popolo, i nostri rappresentanti.

Verrebbe da ricordare che, a volere guardare la pagliuzza nell’occhio del vicino, non si vede la trave nel proprio. Ma qui non ci sono pagliuzze: la discriminazione, come la corruzione, sono due cancri che corrodono l’umanità ovunque nel Mondo: umiliano e mortificano chi ne patisce le conseguenze; squalificano e infangano chi le pratica.

Il Vecchio Continente, che talora dimostra l’età che ha, ne ha viste di tutti i colori nel XXI Secolo: successi – l’entrata in vigore dell’euro, la moneta unica, e l’allargamento ai Paesi dell’Europa dell’Est, un modo per ancorarli alla democrazia, con il risultato, però, di zavorrare l’integrazione -; e insuccessi – il fallimento del tentativo di dotarsi di una Costituzione, surrogata da quell’obbrobrio giuridico-istituzionale del Trattato di Lisbona -; la crisi economica del 2008/2012, che ha fatto danni gravi; la Brexit, la pandemia, ora la guerra in Ucraina con i suoi succedanei, crisi energetica e ritorno dell’inflazione.

Alla pandemia, l’Ue ha saputo reagire con un colpo di reni senza precedenti nella sua storia, muovendosi in fretta e bene: ha messo in comune il debito contratto per rinforzare i sistemi sanitari nazionali e per fare ripartire le economie. Risultato: il Next Generation EU e il nostro Pnrr. Invece, la guerra non ha visto una reazione altrettanto rapida e coesa.

Questo perché l’invasione dell’Ucraina da parte della Russia ha messo in evidenza due debolezze dell’Ue di cui tutti erano a conoscenza, ma cui nessuno aveva mai voluto davvero por mano: l’energia e la difesa; cioè, da una parte, la dipendenza, per le forniture di gas, dalla Russia – valeva per molti Paesi, fra cui la Germania e l’Italia, i due più popolosi -; e, dall’altra, la dipendenza quasi totale dagli Stati Uniti per la nostra sicurezza.

Di Unione dell’Energia e di Europa della Difesa si parla da anni: la prima è stata impostata e avviata nella seconda metà degli Anni Dieci, ma resta incompiuta – come la crisi in atto dimostra -; la seconda doveva essere il grande tema dell’attuale legislatura della Commissione e del Parlamento europei, se non ci fossero stati la pandemia prima e la guerra ora.

Il conflitto ha reso evidenti tutte le carenze dell’integrazione europea: l’Ue è un gigante economico, dalle dimensioni comparabili a quelle di Usa e di Cina, in termini di Pil cumulato. Ma dipende dall’import di energia, a meno di fare la scelta del nucleare come la Francia – e nel Mondo non è facile trovare energie fossili sicure e ‘democratiche’, visto quali sono i Paesi esportatori (si salvano, giusto giusto, Norvegia e Stati Uniti, ma a che prezzi!). E, militarmente, dipendente dagli Stati Uniti nell’ambito dell’Alleanza atlantica.

Significativo che Mosca voglia garanzie da Washington per il rispetto delle ‘esigenze di sicurezza’ all’origine dell’invasione dell’Ucraina, dopo che le garanzie europee franco-tedesca sugli Accordi di Minsk del 2014 e 2015 si sono rivelate inadeguate.

Può darsi che il conflitto e l’inverno inneschino scelte europee più efficaci e radicali in materia d’energia: diversificazione degli approvvigionamenti, marginalizzazione delle fonti fossili e incentivazione delle energie alternative, anche per rispondere alle altre minacce incombenti, cambiamento climatico e riscaldamento globale, quelle che mettono a rischio di scomparsa milioni di specie sul Pianeta, compreso l’uomo. Il conflitto in Ucraina finirà, ma la ‘battaglia del clima’ durerà generazioni, se ve ne saranno ancora.

Sul fronte della difesa, invece, la guerra fa da tappo: l’Occidente in senso lato, la Nato e l’Ue, ma anche Canada e Oceania, Giappone e Corea del Sud, s’è rannicchiato sotto la copertura statunitense; e lì resterà finché girano minacce, anche solo evocate per esorcizzarle, di conflitto nucleare. Ma bisognerà poi porsi il problema d’una capacità di difesa europea per non continuare a essere subordinati alle scelte americane, anche quando esse ci impongono sacrifici economici.

Tanto più nella prospettiva di un Mondo in cui l’Atlantico diventi più largo del Pacifico e l’attenzione di Washington sia rivolta più a Pechino che a Mosca – per non parlare di Bruxelles, o Berlino, Parigi, Roma -. L’Unione dell’Energia e l’Europa della Difesa non sono però risultati che “cadranno dal cielo”, per citare Altiero Spinelli sull’Unione europea: per renderli possibili e concreti, bisogna che noi europei capiamo che la nostra vera sovranità, oggi, è quella europea, mentre quelle nazionali sono solo ingannevoli simulacri) e che il consolidamento dell’Unione passa per il superamento dei vincoli dell’unanimità e del diritto di veto.

Ci arriveremo? Sicuramente. Ma non nel 2023.

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Giampiero Gramaglia
Giornalista, collabora con vari media (periodici, quotidiani, siti, radio, tv), dopo avere lavorato per trent'anni all'ANSA, di cui è stato direttore dal 2006 al 2009. Dirige i corsi e le testate della scuola di giornalismo di Urbino e tiene corsi di giornalismo alla Sapienza.