Le rivolte popolari, avvenute nel mondo arabo, costituiscono indubbiamente una pietra miliare per il Medio Oriente e il Nord Africa, ma la transizione verso la democrazia sarà lunga e difficile
Un anno fa le sollevazioni popolari che si sono diffuse nel mondo arabo, rovesciando quattro radicati regimi autoritari, hanno scatenato grandi attese di un risveglio della democrazia in Medio Oriente e nel Maghreb. In effetti, alla caduta del governo di Ben Ali, il primo della serie, furono in molti a leggere gli eventi in Tunisia come l’equivalente arabo di quel crollo del Muro di Berlino che aprì la via al trionfo della democrazia sull’autocrazia in Europa centrale. Un anno dopo, possiamo dire che si è trattato di un’illusione. Guardando la regione non si può che concludere che le forze controrivoluzionarie e il potere della vecchia guardia, uniti alle antiche convinzioni, stiano rendendo la transizione verso la democrazia sempre più imprevedibile e pericolosa, accentuando le tensioni settoriali e i conflitti in una regione tradizionalmente attraversata da divisioni religiose ed etniche, come, giusto per citare un esempio, quella che oppone sunniti e sciiti all’interno dello stesso Islam.
Un contesto geopolitico sempre più incerto e pericoloso. In Egitto il regime di Mubarak sarà anche stato deposto, ma è ancora l’esercito a tirare le fila, che mostra il suo vero volto perseguendo tutti coloro che lavorano in favore della democrazia, dagli americani agli europei, fino agli stessi egiziani. In Bahrain la vecchia monarchia è sostenuta dall’Arabia Saudita nel quadro della propria strategia di contenimento dei tentativi iraniani di espandere l’influenza del paese nella regione del Golfo. L’aspetto peggiore è senz’altro la guerra civile che sta montando in Siria, dove il regime di Assad ha cercato di trasformare una rivolta di un popolo alla ricerca di maggiore libertà e giustizia in un conflitto settario, scatenando la forza militare contro i civili, con risultati letali. La violenza e gli spargimenti di sangue stanno mutando la Primavera araba e le sue promesse democratiche iniziali in un inverno oscuro. E tutto ciò si colloca in un contesto geopolitico sempre più incerto e pericoloso, scosso dalle tensioni regionali e internazionali scatenate dalle ambizioni nucleari dell’Iran e dal problema, mai sopito e che domina ancora la scena politica, della questione israelo-palestinese. Tra tutti i paesi quello che probabilmente gode delle migliori probabilità di dar vita a un sistema democratico, seppure di stampo islamico, garantendo più libertà ed eguaglianza, è la Tunisia. La sua classe media colta e i giovani hanno beneficiato di un certo livello di liberismo economico prima degli eccessi dell’ultima ora dell’entourage di Ben Ali. In aggiunta, il paese è relativamente piccolo, senza significative influenze geopolitiche, giacché non è ricco di risorse e non ospita neppure asset strategici come il Canale di Suez. Ciò nonostante l’ex ministro degli esteri iraniano e leader del movimento islamico nazionalista di opposizione, Ebrahim Yazdi, si è sentito in dovere di scrivere una lettera a Rachid Ghannoushi, a capo del partito di centro destra, moderatamente pro-Islam, Ennahda, vincitore delle elezioni dello scorso ottobre, le prime elezioni libere dall’indipendenza del paese nel 1956 nonché le prime svoltesi nel mondo arabo dall’inizio della cosiddetta Primavera araba. Yazdi ha sottolineato un aspetto importante, pur se deprimente, nella sua missiva. “Nei paesi musulmani – si legge – alla detronizzazione di una serie di despoti segue immediatamente l’insediamento di un’altra serie di despoti. Guardiamo a ciò che è successo in Iran. Nonostante la lotta per i diritti fondamentali, la libertà e l’autodeterminazione, a noi musulmani, di qualsivoglia nazionalità, manca una sufficiente esperienza di democrazia. Lottiamo e destituiamo i dittatori, ma non cancelliamo la tirannia come modalità di governo e stile di vita”. Ma, come dice un antico adagio, in ogni autocrazia si nasconde una democrazia che cerca di emergere. Una considerazione che ci appare ancora più vera in questi giorni, considerando i cambiamenti legati alla tecnologia e a Internet che hanno rivoluzionato e globalizzato le comunicazioni, i viaggi e, in larga misura, l’economia. Questa globalizzazione ha reso il mondo più trasparente e offerto ai cittadini comuni e alle nuove generazioni di giovani colti e di mentalità aperta un proprio potente arsenale per combattere le forze repressive e autoritarie al potere nei diversi stati. La sfida sulle risposte alle richieste popolari di maggiore democrazia si sta rafforzando in tutti i regimi autocratici. Sostanzialmente le possibilità sono due: da un lato questi possono adattarsi alla spinta popolare, orientandosi verso un sistema più democratico di governo oppure, dall’altro, erigere barricate per arrestare il cambiamento e consolidare le proprie strutture di potere esistenti. I paesi in Medio Oriente e nel Maghreb devono, inoltre, fronteggiare un altro problema, che possiamo riassumere in una domanda: le ingenti ricchezze derivanti dal petrolio e dalle risorse naturali in alcuni di questi paesi ostacolano il cammino della democrazia?
Se l’abbondanza di risorse ostacola davvero la democrazia. Gli studiosi hanno dibattuto a lungo su questo tema, spesso definito come “la maledizione del petrolio” o “il paradosso dell’abbondanza”. In altre parole, l’abbondanza di petrolio finisce forse per danneggiare e non già per aiutare i paesi più ricchi di risorse e, in ultimo, è possibile che democrazia e petrolio coesistano? La risposta non è univoca e sarebbe fuorviante generalizzare. Infatti, da una parte, è vero che la presenza di petrolio unita a istituzioni pubbliche deboli produce povertà, disuguaglianza e corruzione. Tuttavia è altrettanto vero che il petrolio non ha ostacolato il fiorire della democrazia in Occidente, basta ricordare la Norvegia o il Canada, mentre in America Latina i paesi più ricchi di petrolio presentano un grado di democrazia superiore rispetto alla media della regione. Infatti, alcuni sostengono che i regimi dittatoriali dell’America Latina dotati di petrolio e altre riserve naturali hanno avuto maggiori probabilità di una qualche democratizzazione rispetto a quelli più poveri, come ad esempio nel caso del Messico o del Brasile. Anche nel mondo musulmano vi sono paesi produttori di petrolio, come Malesia e Indonesia, che sono più vicini alla democrazia che alle dittature. Per quanto riguarda le tensioni locali e i conflitti che attraversano i territori arabi, non sembrano tanto legati al petrolio quanto alle centenarie differenze settarie, religiose e culturali, nonché alle manovre politiche dei regimi che tentano di mantenere un equilibrio dei poteri nella regione. L’attuale rivoluzione in Siria, che non è tra i principali paesi produttori di petrolio, non è certamente dovuta al petrolio. Così come non lo è stata la sollevazione in Egitto. Analogamente vi sono molteplici situazioni che dimostrano come il petrolio possa porsi come una barriera allo sviluppo democratico negli stati arabi autoritari che vivono grazie a questa risorsa. Michael Ross, docente di scienze politiche all’Università della California, ne discute approfonditamente nel suo recente studio “Will oil drown the Arab Spring”, in cui prova a rispondere alla domanda se il petrolio soffocherà la Primavera araba analizzando il rapporto tra regimi autoritari, petrolio e risveglio democratico nel mondo arabo. La sua conclusione è che i paesi nella regione sono meno liberi perché producono e vendono ingenti quantità di petrolio. È probabile che paesi come Egitto, Giordania, Tunisia, Libano e Marocco, in cui il petrolio è assente o scarso, abbiano un livello di libertà sconosciuto nelle principali nazioni produttrici della regione, quali Bahrain, Iraq, Kuwait, Iran, Arabia Saudita e Libia. I regimi che prosperano sul petrolio sono particolarmente efficaci nello sconfiggere i tentativi di rovesciamento. Il professor Ross nota che solo un capo di Stato di un paese ricco di oro nero, il libico Gheddafi, è stato deposto dall’inizio della Primavera araba lo scorso anno e come ciò sia stato possibile solo grazie all’intervento della Nato. In sua assenza, infatti, i ribelli libici avrebbero avuto scarsissime possibilità, per non dire nulle, di vincere contro la potenza militare di Gheddafi. Sostenuti dalla ricchezza derivata dal petrolio, questi regimi sono riusciti letteralmente a comprare i propri cittadini, attingendo alle risorse pubbliche per offrire benefici e annullare virtualmente i prelievi fiscali. L’Algeria, ad esempio, ha annunciato l’intenzione di spendere 156 miliardi di dollari in nuove infrastrutture e di tagliare le imposte sullo zucchero per tacitare l’opinione pubblica. In Arabia Saudita si spenderanno 136 miliardi di dollari per aumentare i salari nel settore pubblico, per sussidi di disoccupazione e per gli alloggi. Il governo saudita ha anche deciso di sostenere economicamente e politicamente il Bahrain per mantenere l’equilibrio dei poteri nella regione del Golfo. Il Kuwait si è spinto ancora oltre offrendo a ogni cittadino 1.000 dinari (pari a 3.600 dollari) e generosi sussidi alimentari per i meno abbienti. Tutte queste elargizioni e l’apparente generosità hanno consentito ai regimi di evitare che la popolazione li chiamasse a mantenere la parola data, rovesciando lo slogan della rivoluzione americana in “nessuna rappresentanza senza tasse”. La ricchezza legata al petrolio ha anche consentito di finanziare ingenti acquisti di armi e, conseguentemente, di conquistare la fiducia delle forze armate e di sicurezza. In ultimo, i governi occidentali hanno avuto un certo ruolo nel sostenere queste autocrazie per proteggere i propri interessi strategici fondati sul petrolio. L’investimento di fondi crescenti per placare le popolazioni locali o per foraggiare la repressione militare a tutela del potere e dell’influenza ha un costo economico e politico non indifferente. Questo costo è probabilmente destinato ad avere profonde implicazioni non solo per i paesi interessati e per i rispettivi regimi, ma anche per il settore petrolifero nel suo complesso e, in ultimo, per l’economia globale.
Due scenari possibili per quello che succederà dopo la Primavera Araba. Paul Stevens ha analizzato due possibili scenari a lungo termine scaturiti dalle sollevazioni della Primavera araba in un saggio illuminante scritto per Chatham House, prestigioso istituto londinese di analisi dei temi di politica internazionale. Uno scenario è classificato come “tutto come al solito”, mentre l’altro prevede “lo sviluppo della democrazia”. Nel primo caso, lo dice già il titolo, nulla cambia. Nei paesi senza riserve petrolifere, come Tunisia ed Egitto, i leader deposti hanno goduto del sostegno degli ambienti militari e delle forze di sicurezza, entità che continueranno a mantenere il potere effettivo e cercheranno semplicemente di sostituire il vecchio capo con un altro, così da mantenere il dominio dell’élite al comando. Nei paesi esportatori, invece, i regimi sopravvissuti probabilmente continueranno a tentare di sedare proteste e tumulti con generose distribuzioni di denaro. Una simile politica richiederà ancora più proventi dal petrolio per sovvenzionare i cittadini e mantenere il potere e, di contro, impedirà lo sviluppo di una struttura economica più efficiente con un settore privato indipendente considerato dal regime come un’ulteriore fonte potenziale di dissenso. Tutto ciò necessiterà, presumibilmente, di una maggiore produzione di petrolio per sostenere la strategia di spesa per la pacificazione, con la conseguente necessità di aprire l’industria petrolifera alle società estere per incrementare i quantitativi ed espandere la capacità upstream. In un contesto di instabilità persistente e di rischio politico elevato, però, le compagnie petrolifere internazionali potrebbero non essere pronte a investire massicciamente nei diversi progetti. Contemporaneamente, una politica di sfruttamento accelerato delle risorse potrebbe avvicinare il giorno in cui questi stessi regimi saranno costretti ad ammettere di non poter più fare affidamento sulla principale fonte di reddito che ,attualmente, li aiuta a contenere lo scontento e le richieste di un’apertura democratica. Il secondo scenario, quello dello “sviluppo della democrazia” in queste autocrazie rappresenterebbe ovviamente un passo in avanti positivo sia in termini di libertà che di diritti umani. Ma non implica necessariamente che la liberalizzazione politica porti a uno sviluppo della liberalizzazione economica, con la nascita di un settore privato più forte ed efficiente. In effetti, inizialmente, sostiene Stevens, esiste il rischio che la democrazia sfoci nel nazionalismo, giacché molti di questi regimi sono considerati localmente come prodotti dell’Occidente, soprattutto degli Stati Uniti. Quindi i cittadini delle nazioni arabe interessate difficilmente eleggeranno leader pro-americani alla guida del governo, privilegiando esponenti del mondo islamico o nazionalisti. Una scelta dalle ovvie ripercussioni sull’equilibrio dei poteri nella regione e sugli attuali rapporti internazionali. In ogni caso Medio Oriente e Maghreb rimarranno ostaggi, almeno sul breve periodo, di un clima politico volatile e pericoloso a cui non giovano certo la volatilità delle quotazioni del petrolio e di altre materie prime e l’incertezza sul futuro dell’economia globale. Ma diverrà sempre più difficile per le autocrazie che prosperano sul petrolio resistere alla spinta verso la democrazia innescata dalle sollevazioni in Tunisia dello scorso anno e che si sono diffuse in tutto il mondo arabo. La Primavera araba costituisce indubbiamente una pietra miliare per il Medio Oriente e il Nord Africa, anche se la transizione verso la democrazia sarà probabilmente lenta, lunga, difficile e a tratti, purtroppo, terribilmente violenta come dimostrano i recenti eventi in Siria.
Paul Betts
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