Il presidente candidato Donald Trump ha espresso a più riprese la sua ostilità al voto per posta, che, al tempo della pandemia, appare l’opzione preferita da una grossa fetta dell’elettorato statunitense: recenti sondaggi stimano fino al 60% i cittadini che intendono votare per corrispondenza, evitando, così, assembramenti ai seggi con – o senza – mascherina.

Trump teme che il voto per posta favorisca i brogli – nessun dato avalla questa ipotesi – e provochi ritardi nello spoglio delle schede; e arriva a suggerire ai suoi fan che votano per corrispondenza d’andare poi al seggio a verificare che la loro scheda sia stata contata e, in caso contrario, di votare di nuovo. Cosa che sarebbe palesemente illegale.

Gli oppositori del presidente dicono che il magnate in realtà paventa l’accresciuta partecipazione innescata dal voto per posta: consapevole che difficilmente avrà la maggioranza dei suffragi, che però non conta per essere eletti, Trump è preoccupato che più gente vota meno facile gli sia conquistare la maggioranza dei Grandi Elettori, vincendo per manciate di suffragi gli Stati in bilico.

E’ un timore politicamente legittimo. Ma la democrazia statunitense, e non solo, non è minacciata dal voto per posta, ma dai cyber-attacchi e dai ‘voti’ di hacker e troll, che hanno loro agende e, soprattutto, loro ‘mandanti’ e ufficiali pagatori. L’ultimo allarme è stato lanciato dalla Microsoft: hacker russi, cinesi e iraniani stanno prendendo di mira centinaia di organizzazioni e persone coinvolte in Usa 2020, comprese le campagne di Donald Trump e di Joe Biden.

L’allarme della Microsoft segue quelli di altri giganti del web e dell’informatica e di social media come Facebook e Twitter, che hanno bonificato le loro liste di bizzeffe d’account ‘fake’ operativi sul fronte elettorale. Purtroppo, l’efficacia dell’azione di interdizione è diminuita dalle differenze d’approccio da azienda ad azienda, da social a social: più permissivo, almeno fino a un certo punto, Facebook; più rigoroso Twitter, che ha anche sventolato cartellini gialli al presidente Trump, molto disinvolto nel lanciare e soprattutto rilanciare messaggi scorretti o addirittura falsi.

Secondo il rapporto della Microsoft, l’unità dell’intelligence militare russa già autrice di interferenze del 2016 è tornata in azione, mettendo nel mirino collaboratori, consulenti e think tank associati sia ai democratici che ai repubblicani. Gli hacker del Gru fanno di tutto per nascondere le loro tracce, ricorrendo ad accorgimenti e tecnologie che rendono più difficile risalire all’ubicazione e all’identità degli incursori.

Gli hacker cinesi si sono invece concentrati sulla campagna di Biden, attaccando account privati dello staff del candidato democratico, fra cui accademici ed esponenti della sicurezza nazionale, inclusi gruppi come l’Atlantic Council e lo Stimson Center. Solo uno degli obiettivi dei pirati cinesi era legato al presidente Trump.

Il che pare smentire l’asserto che Putin vota Trump e Xi vota Biden. Nessun dubbio, invece, che l’Iran non voti per Trump. Ma, forse, Russia e Cina fanno come le grandi aziende americane che danno fondi a entrambe le campagne – non sai mai come va a finire! -.

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Giampiero Gramaglia
Giornalista, collabora con vari media (periodici, quotidiani, siti, radio, tv), dopo avere lavorato per trent'anni all'ANSA, di cui è stato direttore dal 2006 al 2009. Dirige i corsi e le testate della scuola di giornalismo di Urbino e tiene corsi di giornalismo alla Sapienza.