di RAFFAELLA MESSINETTI

Tutti i diritti riservati. A chi?

Questo interrogativo non è affatto scontato: il significato che il sintagma “tutti i diritti riservati” esprime, richiamando moduli elementari del ragionamento giuridico (pienezza ed esclusività dei poteri proprietari; titolarità autoriale) si rivela inadeguato a rappresentare correttamente la realtà nel tempo della comunicazione digitale. Addirittura, la linearità apparente della sua significazione normativa finisce per servire una strategia di falsificazione: occultare il tentativo di appropriazione del mondo culturale da parte del capitalismo finanziario. Questo è un profilo decisivo del processo di mutamento in atto nella Rete perché: “la ricerca spasmodica del profitto chiude nel capitalismo finanziario ogni alternativa alla sopravvivenza di attività nelle quali il denaro non sia lo scopo principale” (G. Rossi).

Si pensi al fenomeno della digitalizzazione e della immissione in Rete delle opere letterarie. L’errore interpretativo che segnalo riguarda il senso della sua percezione sociale più diffusa: la liberazione, in virtù delle inedite possibilità offerte da Internet, dei processi di circolazione delle idee e delle informazioni. Tra i giovani – con cui mi confronto nella mia esperienza di docente – ciò talvolta assume il tono “epico” di una riappropriazione sociale della cultura, in forza di una sorta di “esproprio democratico” della proprietà intellettuale. Sarebbe in atto un processo rivoluzionario di “distruzione creatrice”: la rifondazione di un mondo migliore attraverso un medium – presentato come – necessario; l’abolizione della proprietà intellettuale (si noti, non di tutte le proprietà!) e, alla fine, l’esclusione del diritto dalla Rete perché incompatibile con la sua libertà “naturale”.

Trovo preoccupante che tale visione riesca ad imporsi come vera ed esclusiva in forza della negazione di alcuni, decisivi, dati di realtà. Infatti, è tuttora indimostrata sul piano empirico la possibilità di: libertà senza diritto; libertà senza proprietà; democrazia senza coesistenza di sfere di libertà.

Il disconoscimento di queste connessioni è sorprendente perché queste costituiscono patrimonio comune alla tradizione giuridica occidentale; vere e proprie condizioni di possibilità del pensiero normativo quale discorso culturale. Tutti sanno, infatti, che la proprietà (come idea) è il nucleo su cui è costruito il concetto giuridico della libertà individuale. È ben noto, inoltre, che il diritto di proprietà (non monopolistico ma individuale) è stato il vero medium di una autentica distruzione creatrice, che rinvia alle radici della nostra stessa identità: la trasformazione attuata dalla rivoluzione francese con la sostituzione al modello feudale dei rapporti sociali ed economici di quello basato sulla libertà tra eguali. È a tutti chiaro, infine, che la democrazia pluralista non comprende l’idea di una affermazione assolutistica e illimitata di un diritto: la coesistenza delle libertà rifiuta naturaliter ogni gerarchizzazione dei valori fondamentali, implicando di conseguenza quel giudizio di bilanciamento che, risolvendo i conflitti caso per caso, individua le condizioni della ragionevole prevalenza occasionale e circostanziata di un valore su quello antagonista. È proprio in questa operazione che si concreta gran parte della “fatica” della democrazia.

Si chiarisce così che l’occultamento del senso del cambiamento funziona  in forza di una distorsione comunicativa: l’uso improprio dei concetti giuridici in conseguenza della rimozione delle rationes antropologiche, filosofiche e storiche che ne individuano senso e funzionalità nel sistema-diritto. In questa prospettiva, la falsificazione della realtà si manifesta come pratica mistificante. La strategia della pretesa rivoluzione non è affatto estranea alla stessa logica che afferma di combattere ma la riproduce, portandola alle conseguenze estreme: il cosiddetto paradosso della proprietà e dell’autonomia privata.  Questi sono effetti ben noti dell’assenza del controllo del mercato ad opera del diritto dello Stato: 1) la ristrutturazione del mercato in senso anti-concorrenziale: la proprietà intellettuale dei singoli scompare, assorbita dalla concentrazione monopolistica della cosiddetta industria culturale; 2) la sostituzione al diritto positivo della legge del più forte. L’espansione della lex mercatoria ne è la prova: il mercato ha bisogno di regole; le genera spontaneamente per garantire, con gli scambi, la circolazione della ricchezza. Più si ritrae il diritto dello Stato, più si espande il potere autoregolativo dei privati. In tale situazione il potere normativo dell’impresa tende naturaliter ad amplificarsi sulla base  – questo è importante – di quelle asimmetrie che vengono celate dal canone dell’eguaglianza formale dei contraenti e, in tal modo, riprodotte e incrementate.

In conclusione, occorre chiedersi: è sensato pensare che la liberazione dei processi culturali possa essere effettuata dal mercato? L’affermazione pare intrinsecamente contraddittoria: il mercato non produce valori, il mercato trasforma tutto ciò che vi accede in bene scambiabile; in virtù del paradigma di indifferenziazione offerto dal denaro, il mercato omologa tutto perché tutto possa essere (ridotto a) mero oggetto di scambio.

Il mondo della cultura allora viene trasfigurato in un mero segmento del mercato, organizzato necessariamente da quella logica dell’avere che disconosce la persona e sostituisce al cittadino democratico il consumatore di prodotti culturali offerti secondo criteri mercantili. I rischi – anche – per la società pluralista sono stati da tempo chiaramente denunciati.

Come rimediare? Il punto di vista del giurista è, per una volta, chiaro: il diritto dello Stato costituzionale garantisce le libertà e i diritti fondamentali. A tal fine deve intervenire nei contesti economici correggendo e limitando la forza del mercato; ricordando, ad esempio, che la proprietà ha – anche – una funzione sociale (art. 42 Cost.); che l’iniziativa economica privata non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla libertà e alla dignità dell’uomo (art. 41 Cost.). Che ve ne siano le condizioni è indubitabile: essere e avere sono per il diritto contesti distinti ma strettamente interrelati. Le opere dell’ingegno sono “beni” peculiari che trascendono l’economico per coinvolgere condizioni essenziali alla realtà dello Stato costituzionale: la pienezza dello sviluppo della personalità umana e l’effettività della partecipazione democratica (artt. 2 e 3 Cost.). Da questo punto di vista, tutti sanno che la concorrenza non è il pluralismo, né lo implica di necessità; che l’informazione non è la conoscenza, ma postula l’autonomia del pensiero critico. Allora, la possibilità di spazio per la cultura indipendente è più che mai questione vitale per la democrazia: nel tempo della separazione e della non-comunicazione tra saperi iperspecialistici e parcellizzati l’individuo non può che affidarsi alla cultura come mediatrice tra il sé e la complessità del mondo.

Raffaella Messinetti

Professore Ordinario di Diritto Privato

“Sapienza” Università di Roma

Dipartimento di Comunicazione e Ricerca Sociale

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