Nei primi mesi del 2009 si discuteva ancora dell’utilità di Twitter. Nell’autunno dello stesso anno si fa francamente fatica a comprendere le obiezioni di chi parla di “notizie non verificate” e “pericolo di inquinamento dell’informazione”. I moti iraniani dell’estate si sono incaricati di spiegare a tutto il mondo a cosa serve un social network: a far parlare la gente quando i media sono in silenzio (qui non conta se per scelta propria o, come nel caso dell’Iran, per imposizione del potere). Questa consapevolezza ci è giunta nel giro di pochi giorni. La prima cosa da dire del futuro dei social media è che si tratta di un futuro a breve. Un futuro che si scrive da solo e lo fa velocemente. Per la verità a scriverlo sono gli individui che sempre più li affollano. Credo che questo elemento sfugga ancora ai tanti analisti-giornalisti che non riescono proprio a farsi una ragione del successo dei social media. È paradossale, ma l’esperienza ci suggerisce che a capir prima la loro “pericolosità” cioè la loro efficacia, sono state le polizie dei Paesi totalitari. Non a caso in Cina assistiamo all’uso di blog e social media, surfer assoldati (è il caso di dirlo, visto che li pagano per ogni delazione fatta) sia per controbattere i dissidenti che per denunciarli alla polizia. Tendo a vedere questo aspetto del futuro come cruciale. È l’aspetto dell’accettazione sociale dei nuovi mezzi, da cui dipende un futuro a breve e medio termine. Non siamo la Cina né l’Iran ma anche da noi esiste una tendenza demonizzatrice e punitiva. Sono in Parlamento disegni di legge che, equiparando in ogni forma i nuovi mezzi ai vecchi, minacciano il loro e nostro futuro. L’aspetto allarmante è presto spiegato: se si estende ai social media una disciplina restrittiva e repressiva (ad esempio se un blogger privato deve temere per una condanna penale)  identica a quella applicata ai “media mainstream”, significa che la nostra accettazione dei mezzi è negativa, che ci facciamo condizionare da paure e fantasmi – come quello che sulla Rete “tutti possono parlare male di tutti e non puoi farci niente”.

Queste cose sono il futuro. Sono il grado di sviluppo della Rete, perché la libertà è condizione dello sviluppo economico di questa, il suo essere un’opportunità di lavoro e sviluppo. Insomma voglio dire che non è una questione ideologica, ma una banale faccenda materiale, di come ci costruiamo un futuro di prosperità e libertà piuttosto che uno peggiore. E parlo di un futuro a due, tre anni. Il futuro dei mezzi non è lo sviluppo della tecnologia, ma la storia dell’accettazione culturale e politica di quella tecnologia nella società.

 

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